martedì, agosto 05, 2008

_chi si ricorda di Gavrilo Princip?

A proposito di memorie urbane che cambiano.
Le diverse fortune e le alterne memorie dell'attentato (e dell'attentatore) di Francesco Ferdinando a Sarajevo sono essenziali per capire il tormentato inconscio di questa città. Leggetevi questo post di francesca (puntuale e documentato, come sempre) per capirci qualcosa. 

lunedì, agosto 04, 2008

_l'odio tollerante di sarajevo

Stimolato dalle attente riflessioni di cicciosax a commento del mio post precedente, vorrei provare ad inaugurare un dibattito sulla reale natura del multiculturalismo della Sarajevo pre-bellica (aspetto dunque anche altre opinioni in merito).

Cicciosax si chiede giustamente: se il multiculturalismo di Sarajevo è di natura eminentemente "topografica" (ovvero: diciamo che sarajevo è una città multiculturale solo perchè chiese e moschee stanno vicine e nello stesso quartiere), in cosa essa è diversa, per dire, da Mostar, che indichiamo come esempio di città divisa per lo stessa "ragione topografica" (ci sono chiese e moschee nella stessa città)? Inoltre: è il multiculturalismo la "cifra" culturale di Sarajevo o piuttosto la compresenza di culture diverse costrette a vivere assieme e a tollerarsi sin quando possono (e quando non possono sono guai)?
A riprova della sua tesi, cicciosax cita Andric e il suo celeberrimo Lettera del 1920, che a suo tempo anch'io avevo citato per portare un esempio di una bella descrizione del carattere pluralista della città. Nel brano - che vi invito senz'altro a rileggere - si descrive la Sarajevo notturna attraverso i suoni e i rintocchi provenienti da chiese, minareti, che danno vita ad una sorta di dialogo/scontro a distanza: anche quando si dorme in questa città ci si odia, conclude amaramente Andric. Ma, per essere precisi, nel racconto non è Andric a parlare, o meglio, queste parole sono dall'autore messe in bocca a Max, austriaco ma nato e cresciuto a Sarajevo, nonché caro amico d'adolescenzadel narratore del racconto (il racconto è scritto in prima persona)e suo compagno "di formazione". Dopo averlo perso di vista, il narratore rincontra Max casualmente alla stazione di Bosanski Brod diversi anni dopo e lì, al termine di una conversazione che sembrava doversi concludere banalmente e convenzionalmente, Max gli confida la sua decisione di lasciare la Bosnia. Cosa lo spinge a lasciare la Bosnia? L'odio, risponde bruscamente Max. Il treno sta per partire, i due devono separarsi, non c'è tempo di chiarire. Giorni dopo, il narratore riceve una lettera da Max, in cui questo prova a dire ciò che non ebbe il tempo di spiegare nel loro incontro di qualche giorno prima. Farò qui delle lunghe citazioni, perché credo che il testo meriti. Così scrive Andric/Max:
"La Bosnia è una terra meravigliosa e appassionante, una terra fuori dal comune, per configurazione naturale e per i suoi abitanti. Come il sottosuolo della Bosnia nasconde grandi ricchezze naturali, così l'uomo bosniaco cela senza dubbio in sé grandi qualità morali, più rare che negli abitanti delle altre terre jugoslave. Ma, vedi, c'è qualcosa che la gente della Bosnia, perlomeno quelli della tua specie, dovrebbero riconoscere e non perdere mai di vista: la Bosnia è terra d'odio e di paura. [...] Da voi gli asceti non scoprono l'amore nella propria ascesi, bensì l'odio per i lussuriosi; i sobri odiano coloro che bevono, e in questi ultimi trovi un odio assassino verso il mondo intero. Quelli che professano una fede odiano a morte coloro che non la professano o ne professano una diversa; quelli che amano, odiano coloro che amano altro. [...] Voi siete, in maggioranza, abituati a coltivare tutta la forza dell'odio per ciò che più vi è vicino. Ciò che per voi è sacro, si trova a miglia e miglia di distanza, dentro a fiumi e montagne, mentre ciò che forma l'oggetto del vostro odio e della vostra ripugnanza e proprio lì accanto a voi, nella stessa cittadina, spesso a pochi metri dal muro del vostro cortile. Così il vostro amore non esige molti fatti, mentre il vostro odio passa ai fatti molto facilmente. Anche la terra che vi ha dato i natali, voi l'amate ardentemente, ma in tre-quattro modi diversi che si escludono a vicenda, si odiano a morte e spesso si scontrano".
E infine, il brano più sconcertante nella sua capacità profetica:
"una certa gentilezza falsa e conformista, la tendenza ad ingannare se stessi e gli altri con frasi pompose, o vuoti cerimoniali, contraddistinguono da sempre i circoli della borghesia bosniaca. tutto ciò dissimula alla bell'e meglio l'odio, ma non lo sradica.ho paura che in quei circoli possano sonnecchiare antichi istinti e progetti fratricidi e che essi coveranno sotto la cenere sino a quando non verranno intereamente rifatte le fondamenta della vita materiale e spirituale in Bosnia".
Queste parole andric mette in bocca all'amico austriaco (si noti bene: austriaco, come i dominatori e modernizzatori della bosnia); e alla fine sembra volersi prendere una rivincita sullo straniero che pretende di aver capito tutto, facendolo morire, nel racconto, in una cittadina aragonese, in Spagna, sotto un bombardamento durante la guerra civile (ironia della morte...).
Sarebbe troppo facile però pensare che Andric volesse mettere tali parole in bocca ad un austriaco per prenderne le distanze o per screditarle. Tanto perfetta - e tanto sentita - sembra essere la descrizione antropologica e sociale di questo presunto "carattere" bosniaco, che è difficile pensare che, nei momenti di maggior pessimismo, Andric non la pensasse esattamente come Max l'austriaco. E in tutta l'opera di Andric (anche se in realtà non la conosco proprio tutta) è presente questa continua oscillazione tra un sentimento positivo della convivenza e la certezza della presenza di un odio inestirpabile.
Di questo odio atavico, le tracce, nella Bosnia di oggi, sono ancora, forse più che mai, presenti: esso emerge da tutti i discorsi, dalle chiacchiere da kafana agli articoli di giornale.
E Sarajevo? davvero la sua presunta multiculturalità è solo un effetto di senso topografico, generato dalla semplice prossimità fisica delle diverse etnie? In parte sì, in parte no, come in tutta la Bosnia. Descrive bene questi meccanismi Karahasan, nel suo "ritratto interiore di Sarajevo", che racconta le dinamiche urbane della città: da una parte la bascarsia, a valle, il centro culturale, sociale e civile, dove ci si incontra, si fanno affari, si discute, si compra, si passeggia, ma dove non si abita; dalla'altra le mahale, sulle colline tutt'attorno la carsia, tutte raccolte attorno alla dimensione privata del vicinato. Proprio questo termine, vicinato, komsiluk in bosniaco, indica quella peculiare dimensione di continuo "scambio" con l'altro, che diventa controprova della propria identità (riporto con parole mie il concetto di karahasan).
Il fatto è che multiculturalismo, in bosnia, vuol dire soprattutto tolleranza, convivenza, secondo un modello probabilmente senza precedenti in tutta la storia recente. Forse un piccolo precedente, in effetti, c'è, ed è la Palermo dal nono al dodicesimo secolo, prima araba e poi normanna, in cui non ci fu mai assimilazione totale (in periodo arabo nei confronti delle culture presenti), né repressione (in periodo normanno nei confronti dei musulmani), ma una tolleranza virtuosa e prolifica in termini di sviluppo culturale e civile (un grande estimatore della palermo di quegli anni fu com'è noto Sciascia, che rivalutò fortemente l'impulso culturale di matrice araba in Sicilia). Non è un caso se prendo l'esempio di palermo: se per i siciliani decisiva fu la dominazione musulmana, anche per i bosniaci fu il periodo musulmano, come afferma Maria Todorova, quello che gli impresse il carattere più profondo. Solo che l'islam balcanico venne dall'impero ottomano, che però esportò un'idea di tolleranza che non cercò mai l'assimilazione né la coesione sociale: i diversi gruppi etnici bosniaci, a causa di ciò, formano quella che in semiotica chiameremmo totalità partitiva.
Da una parte, dunque, è innegabile che Sarajevo è stata da sempre pervasa da un grande senso di tolleranza; l'esempio classico è quello degli ebrei sefarditi, scacciati dalla cattolicissima Spagna e accolti a Sarajevo, ove portarono testi rari e preziosi e si integrarono, seppur non numerosissimi, nella vita civile dell'avamposto ottomano. Né vale la pena di ripetere la solita tiritera che prima della guerra nessuno sapeva del proprio vicino se era musulmano cattolico o ortodosso (che, a dirla tutta, c'era un regime con le orecchie dritte a reprimere ogni discorso del genere), né parlare della vita culturale della città, animata tra le varie istituzioni anche dall'associazione serba prosvjeta. Ma per dimostrare la multiculturalità e la tolleranza dei sarajlije basterebbe ricordare le giornate di Valter, organizzate, pochi giorni prima dell'inizio dell'assedio, spontaneamente, dai cittadini per difendere i valori civili della città unità contro i nazionalismi e finite nel sangue sotto il tiro inaspettato dei cecchini serbi appostati sull'holiday inn (a proposito, ricordate, la prima vittima non fu un berretto verde musulmano, ma una manifestante, una ragazza croata). Inaspettate, sì, perché tutti si rifiutavano di credere che ciò che era successo in Slovenia e Croazia potesse ripetersi proprio lì, nella "jugoslavissima" Bosnia. In fondo quelli che puntavano i loro cannoni dalle alture di Pofalici, del Trebevic e degli altri monti vicini erano quelli dell'Jna, dell'esercito Jugoslavo, che stavano lì per proteggerli... E anche quelli che avevano capito, facevano finta di niente, un po' perché a tenere la bocca chiusa non rischiavano di fare una brutta fine, un po' perché no, tutto ciò non poteva succedere nella città di Valter...
Dall'altra parte, in un altro senso, questa tolleranza e questo spirito di convivenza sembrano possedere, a Sarajevo, una natura del tutto peculiare, e sembrano incapaci di annullare le tensioni, di risolvere le tensioni. Anzi, è un castello di tensioni in equilibrio. Come in tutte le storie, i castelli prima o poi crollano: cos'è che ha fatto crollare (e farebbe crollare) il castello bosniaco della convivenza?
Forse un'altra citazione, rilasciata da Ejup Ganic, futuro ex presidente della FBiH, poco prima dello scoppio delle ostilità, potrà chiarire come il valore civico della convivenza sembrasse radicato a Sarajevo:
"Questa è la Bosnia. Tre diverse opinioni sulla stessa cosa, opinioni diverse, sulle quali non è possibile mettersi d'accordo, e che tuttavia sei costretto ad osservare sorseggiando il caffé. Il buon caffé bosniaco, questa calda, nera bevanda assicura la salvezza di questa repubblica. Non voglio neanche pensare a quando non sarà più possibile prendere assieme il caffé"
Ma Ganic si sbagliava, e negli anni successivi, a Sarajevo, non solo non sarebbe stato più possibile prendere il caffé con quelli che non la pensavano come te, era il caffé che non c'era più, c'era l'assedio...
Eppure, nonostante tutto, l'anima della Bosnia stava tutta in questa convivenza instabile, e la guerra ha fatto perdere alla Bosnia la sua anima. La migliore espressione della priorità dei valori civici e urbani me l'ha data l'anziano signore che si occupava della manutenzione di casa mia a Sarajevo: "sai io sono serbo, mi dice, sono ortodosso, ma sono amico di Senad [il padrone di casa], anche se lui è musulmano. Siamo amici da sempre, e abbiamo combattuto assieme". "Tu hai combattuto assieme ai musulmani?", faccio io. "Assieme ai musulmani? io ho combattuto assieme a tutti quelli che hanno difeso questa città. Se loro mi sparano, se sparano alla mia città, io rispondo, non sono serbi, sono bestie".
Infine, se vogliamo provare a rovesciare l'ipotesi "topografica": ma non è proprio la conformazione urbanistica e topografica della città a mostrarci il carattere autentico di tale difficile secolare convivenza? il fatto, ad esempio, che a Sarajevo non ci sia mai stato un ghetto, nonostante la presenza di minoranze (altra cosa era il quartiere latino dei croati o le mahale, il cui principio aggregatore, come abbiamo visto, non era tuttavia la religione, ma il komsiluk); il fatto che lo spazio centrale della città fosse uno spazio di confronto e di scontro civile con l'altro, uno spazio di traduzione, di "conversione", di rappresentazione della differenza, questo fa di Sarajevo una città unica.
E Mostar? Perché lì il discorso è completamente diverso? Perché a Mostar non c'è "compresenza", ma "concorrenza" di simboli, non c'è una carsia comune in cui incontrarsi e prendere un caffé. C'era una volta, ed era il ponte ed il suo kijundziluk. L'hanno ricostruito e restaurato, ma chi vive nella parte croata non va da quelle parti neanche nei suoi sogni più sfrenati. 
Ma Mostar la rimando al prossimo post, così posso correggere alcune delle ipotesi iniziali che avevo fatto in un vecchio post prima di visitare la città...
A proposito, per concludere restando in tema (il tema del blog): a Visegrad, vicino al ponte sulla Drina protagonista di uno dei suoi romanzi (e forse chiave di volta di tutta la bosnia), c'era una statua di Ivo Andric: è stata distrutta.

_13 anni fa l'Operazione Tempesta

Per capire bene le trasformazioni dei "balkan scapes" dopo le guerre, bisogna guardare alle trasformazioni demografiche e alle nuove geografie umane causate o imposte dagli eventi bellici: così Sarajevo, da città multietnica e multiculturale, dopo quattro anni di assedio ad opera delle milizie serbe, è oggi abitata quasi esclusivamente da bosniaci, mentre serbi, croati, ebrei sono quasi tutti scappati via; Mostar, da città "laboratorio-sociale", con il più alto tasso di matrimoni misti e di cittadini che si dichiaravano jugoslavi (per sfuggire alle logiche etniche o perché nati da coppie "miste"), ora è divisa (letteralmente) tra croati e bosniaci; Banja Luka, sede del pashaluk bosniaco durante la dominazione ottomana, con le sue bellissime moschee, tutte distrutte nel periodo 1992-1995 (compresa l'antichissima moschea Ferhandia, XV sec, già patrimonio Unesco), è ora abitata esclusivamente da serbi; Srebrenica è diventata il simbolo delle strategie di pulizia etnica dei nazionalisti serbi e, da cittadina a maggioranza musulmana, si è trasformata in una città a maggioranza serba.
Le terribili vicende di diaspora e pulizia etnica sono "leggibili" nei paesaggi urbani di queste città, ed è per questo che ritengo utile e interessante studiare le città, perché esse ci parlano di chi ci vive, ci parlano delle trasformazioni delle identità di questi popoli: le nuove "forme urbane" di queste città sono specchio delle nuove identità.
Sarajevo, il cui carattere multiculturale si manifesta anche nella struttura urbanistica, o nel fatto, per esempio, che nel raggio di neanche 500 metri si alternano chiese cattoliche, chiese ortodosse, sinagoghe, moschee, chiese evangeliste (già, anche chiese evangeliste), sta assumendo sempre più, attraverso l'edificazione di gigantesche moschee o attraverso interventi di ricostruzione "mirata", i caratteri di una capitale musulmana; a Mostar, dei serbi (che, sembra, se ne sono andati a seguito di accordi sottobanco tra esercito serbo e milizie croate), non restano neanche le tracce materiali (la grande cattedrale ortodossa è stata letteralmente rasa al suolo e restano solo poche macerie), mentre le divisioni etniche della città prendono forma nella gara in altezza tra minareti e campanili cattolici, che non si alternano in un regime di compresenza e tolleranza, come nella sarajevo prebellica, ma che diventano anzi dispositivi spaziali di marcatura del territorio; si è già detto delle moschee di Banja Luka e del tentativo di costruire una identità storica della città che sia esclusivamente serba e ortodossa, cancellando secoli di storia e di convivenza tra religioni diverse; si potrebbe scrivere a lungo di Srbrenica, del suo memoriale, che non parla a nessuno, o meglio, forse parla meno dello scheletro del palazzo energoinvest bruciato durante la guerra e che è ancora lì, o della scritta "ratko" che, mi raccontava un mio amico, fa ancora nella mostra di sé e nessuno ha avuto la forza di andare a cancellare.

Ma orientarsi nei labirinti delle memorie balcaniche non è per nulla facile, e qualunque bussola scegli, prima o poi ti porterà in una direzione sbagliata.

Cade oggi l'anniversario della cosiddetta Operazione Tempesta, offensiva militare condotta dalle milizie croate contro i serbi della Krajina, della Banija, della Lika, della Dalmazia del nord. A seguito di questa offensiva, il 5 agosto l'esercito croato occupa la città di Knin e inizia la pulizia etnica dei croati a danno dei serbi.

Il vecchio nome di Knin, quando era sotto il controllo di Venezia, era Tenin; ci visse a lungo anche una minoranza italiana. Dopo la seconda guerra mondiale, la città entrò a far parte del cosiddetto regno indipendente di Croazia, nonostante i numerosi serbi della regione avessero chiesto l'annessione alla Dalmazia italiana, preferita allo stato nazionalista croato. Furono anni di "prove tecniche di odio interetnico" tra croati e serbi (la cui eredità arriverà sino ai '90), con i massacri reciproci di civili serbi da parte di ustascia e civili croati da parte di cetnici.

Sotto la Jugoslavia di Tito, la città entrò a far parte della Repubblica federale di Croazia, ma con una fortissima maggioranza di residenti serbi. Dopo la secessione croata del '91, i serbi della Krajina dichiararono la loro indipendenza dalla neonata repubblica croata e proclamarono la Regione Autonoma Serba della Krajina, con capitale a Knin. Era da Knin che partivano gli attacchi serbi alle coste croate.
Con la caduta della Repubblica della Krajina nel 1995, i croati entrarono a Knin e iniziarono una violentissima campagna di pulizia etnica a danno dei serbi. Si calcola che il numero dei serbi uccisi o dispersi durante l'operazione sia di 1900 civili.


Il 5 agosto, in Croazia, è festa nazionale. Si celebrano le forze armate.