venerdì, marzo 28, 2008

_la torre della televisione del monte avala

vi invito a leggere questo post di sajkaca (assolutamente attinente ai temi trattati in questo blog) sulla torre delle televisione che sorgeva sul monte avala a belgrado, distrutta dai bombardamenti e ora in ricostruzione.

giovedì, marzo 27, 2008

_segni di guerra



ho osservato molto, in questi giorni a belgrado, la zona di kneiza milosa, la via dove si affacciano ambasciate, monumentali uffici governativi e le ormai famose (almeno per chi frequenta questo blog) macerie prodotte dalle bombe Nato. 
Kneiza Milosa è una sorta di red carpet governativo per la città, un tripudio di palazzoni, colonne, cupole e soprattutto bandiere, canadesi, croate, tedesche, americane, polacche... tra tutte spiccano le immense bandiere serbe, tutte nuove fiammanti, con il nuovo emblema serbo ricomparso dopo l'indipendenza del Montenegro - aquila bicipite, scudo con le quattro C, corona che tradisce forse una certa nostalgia per la monarchia (le pretese al trono di colui che pensa di essere il legittimo erede, Alessandro Karadjordjevic, si sono intensificate a partire dal 2000). La presenza massiccia di bandiere serbe coi loro colori accesi genera un fortissimo contrasto cromatico che spezza la monotonia dell'onnipervasiva scala tonale del grigio (tutta presente qui) che caratterizza invece questi colossali edifici, un grigio derivante probabilmente anche dal fortissimo smog sempre presente nell'aria.
Ma questa lunghissima arteria - attraversata da ben cinque corsie percorse ad ogni ora del giorno e della notte da automobili (alcune lussuosissime, la maggior parte scassatissime yugo) che rendono l'aria davvero irrespirabile, e attraversata, durante il giorno, da veri e propri fiumi di gente - questa importante strada, dicevo, non è solo un quartiere governativo ma è diventata, in effetti, negli anni, un piccolo palcoscenico, dove, nei momenti di maggiore crisi, la popolazione serba mette in scena le proprie proteste, le proprie rimostranze nei confronti della comunità internazionale.
Oltre a kneiza milosa, l'altro importante spazio "topico" di ogni manifestazione o protesta, è l'enorme spiazzo antistante il Parlamento serbo, non distante da Kneiza Milosa, vicino Kralja Milana, l'altra via principale del centro (in kneiza milosa è il potere politico a mettersi in scena, in kralja milana forse più quello economico). davanti il parlamento i serbi si raccolgono nei momenti difficili (vi ricordate quando l'edificio che lo ospita venne dato alle fiamme nel 2000 per sancire definitivamente il no dei serbi a milosevic?), a kneiza milosa i serbi vanno per fare sentire la propria voce agli altri stati.
questo percorso sintattico ha caratterizzato anche le recenti proteste del 21 febbraio scorso a seguito della proclamazione dell'indipendenza del Kosovo: grande adunata con comizi davanti al parlamento, poi sfilata sino alle ambasciate straniere per protestare contro chi aveva riconosciuto la decisione di pristina; quindi, i disordini, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, mostrandoci una sorta di città sotto assedio. quasi tutti i belgradesi con cui ho parlato condannano questi gesti vandalici - in effetti opera di poche centinaia di persone, ma li comprendono. 
L'effetto finale, tuttavia, è stato quello di produrre altri segni di distruzione, in questa via in cui di segni di guerra ce n'è fin troppi. i segni delle devastazioni sono ancora lì, i muri anneriti dell'ambasciata americana, le finestre blindate di edifici che paiono sotto assedio, la presenza sempre massiccia di polizia (che, tra l'altro, ostacola le mie osservazioni, spero che non si stufino di vedermi sempre lì attorno e che non gli venga mai in mente di farmi passare qualche guaio): questa via, a volte, sembra di nuovo appartenere ad una città in guerra.
c'è un'altra cosa che non si può non registrare dopo un'osservazione attenta di questa parte della città: questa strada sembra possedere una speciale predisposizione a registrare alcuni tipi di segni prodotti dalla storia, come una pellicola troppo sensibile; al tempo stesso, questi segni sembrano, qui più che altrove, particolarmente resistenti alla cancellazione, alla rimozione. continuo a chiedermi perchè.
gli americani, col loro inguaribile pragmatismo, stanno in questi giorni reimbiancando la facciata dell'ambasciata, ma hanno militarizzato ancora di più gli accessi alla zona dell'edificio. ieri, davanti al loro consolato, campeggiava un cartello in cui c'era scritto che c'erano dei lavori in corso ma nonostante ciò, anche se gli uffici potrebbero sembrare chiusi, il personale è tutto operativo. Insomma: l'ambasciata sembra chiusa, ma non lo è. in realtà di personale, dicono, attualmente ce n'è ben poco, ma non si può dire, si fa finta che si sia tornati alla normalità.
difficile però che una mano di vernice bianca possa cancellare i tanti malumori.

martedì, marzo 25, 2008

_ Jugoslovensko dramsko pozorsite


ho fatto alcune foto al teatro restaurato da Radojicic; progetto interessante che conserva la vecchia facciata liberty e la ricopre con pannelli in vetro retti da un impalcatura in acciaio dipinta di bianco. Ricorda un po' lo stile di bernard khoury, l'architetto libanese che ha progettato tanti importanti edifici di beirut; in particolare c'è qualche assonanza con il suo hotel-restaurant Central. Entrambi sembrano voler conservare e integrare nel risultato finale quelle strutture che sono proprie della fase di realizzazione del progetto (come le impalcature) o che servivano a mantenere stabile l'edificio prima dell'intervento di ristrutturazione. Un tentativo di rendere permanenti dei segni pensati per essere transitori che può nascondere finalità diverse: nel caso di Khoury l'intenzione era quella di rendere organici alla struttura dell'edificio i segni del suo passaggio attraverso le guerre (l'impalcatura del central a Beirut era stata approntata per impedirne il crollo in caso di bombardamenti); il senso dell'operazione fatta con questo teatro di Belgrado è in qualche modo simile? Proverò a chiederlo personalmente a Radojicic.

Questa l'avevo scattata nel 2005.
N.B.: dato l'argomento del blog, sarà bene chiarire che l'edificio NON era stato danneggiato durante la guerra, ma era andato in fiamme per altre cause.

_primo post da belgrado

faccio finalmente ritorno al mio blog, dopo tutti questi giorni di latitanza, per scrivere il mio primo post da belgrado! sono arrivato venerdì e sto provando a organizzare il mio lavoro di ricerca, e solo ora mi rendo davvero conto di quanto sarà difficile. Sto provando a prendere i miei primi contatti, grazie anche all'ospitalità dell'Istituto italiano di cultura e a quella dei miei amici serbi ai quali provo da giorni a spiegare (non so con quanto successo) cosa sto facendo qui.
I miei programmi per i prossimi giorni sono, nell'ordine: visitare lo Human rights center, che dovrebbe essere il mio appoggio principale (anche se non ho ancora conosciuto personalmente il mio referente di lì, che in questi giorni non è in sede) e incontrare Zoran Radojicic, l'architetto che ha curato, tra  le altre cose, il rifacimento dello Yugoslav Drama Theater e il progetto della biblioteca nazionale. Sono due progetti eccezionali e appena possibile vi posterò alcune foto, perché purtroppo non sono molto famosi. 
Ho già visitato inoltre le facoltà di lettere e di filosofia e parlato con tante persone e posso provare a formulare una prima osservazione: non esiste un'opinione pubblica serba compatta, come la stampa occidentale prova a farci credere quando ci propina l'immagine di un nazionalismo serbo uniforme e becero; al tempo stesso, le diverse posizioni sono talmente diversificate che è a volte sembra davvero impossibile capirci qualcosa (per dirla come un siciliano, qui davvero ogni testa è tribunale). La strategia retorica, però, resta uguale in tutti: ognuno presenta la propria opinione come quella che, ovviamente, meglio risponde alle reali esigenze del paese, e, al tempo stesso, scredita le opinioni contrastanti presentandole come assolutamente irrazionali quando non criminali.
una cosa è certa, tutti riescono ad essere estremamente convincenti quando delegittimano le opinioni avversarie, e l'efficacia delle loro argomentazioni risiede nel fatto che tutti (sottolineo tutti) riescono sempre a raccontarti degli aneddoti a dir poco imbarazzanti (in realtà l'aggettivo giusto sarebbe un altro) che screditano fortemente il personaggio politico avverso. Circolano tante di queste storielle di segno opposto (anzi di una moltitudine di segni diversi), ed è naturale che sorga un sospetto, anzi due: o - come sempre nei periodi di intensa campagna elettorale, come ora qui, e comunque in periodi di forte travaglio politico - le bugie e le mezze verità riescono a diffondersi con una velocità e una capacità riproduttiva enorme o, e non scarterei subito questa ipotesi, tutti i politici qui hanno qualche scheletro nell'armadio.

lunedì, marzo 03, 2008

_il nuovo vecchio ponte di mostar

parlando di ricostruzioni postbelliche in ex-jugoslavia non si può non affrontare il caso di Mostar e del suo famoso ponte, demolito dall'artiglieria croata nel novembre del 1993, ricostruito (tra l'altro da uno studio di Firenze) e riconsegnato alla città e all'umanità nel 2004. Ecco come appariva il ponte in una cartolina del 1930

Queste sono le rovine del ponte dopo il crollo:
Ed ecco come appare oggi, dopo i lavori di ripristino diretti dall'architetto italiano Romeo Manfredo
La distruzione di questo ponte fu un gravissimo colpo per il morale non solo dei bosniaci ma di tutti quanti stavano vivendo l'esasperazione di una guerra che sarebbe riduttivo definire solo "civile", ma che delle guerre civili aveva acquistato i tratti più truci. Ci fu addirittura chi fece notare, forse un po' troppo causticamente, che, mentre negli stessi giorni venivano diffuse le atroci immagini del massacro di Stupni Dol, operato dai croati nei confronti degli abitanti del villaggio musulmano, pochi piansero per le tante vittime innocenti della strage ma tutti piansero per il ponte. 
Può sembrare insensato, fin crudele, piangere per delle pietre più che per delle vite umane, e senza dubbio, in fondo, lo è; nessuna cappella sistina al mondo vale una sola vita umana. Ma è anche vero che, se di fronte ai sentimenti di apatia, di fatalismo, quasi di indifferenza, che una guerra che pare interminabile può generare in quelli che vi si trovano loro malgrado in mezzo, può risultare quasi comprensibile la difficoltà di trovare altre lacrime per quegli altri morti, dopo che tante ne sono già state versate e per tanti altri morti, d'altra parte è fin troppo comprensibile la ragione di queste nuove lacrime per le pietre di questo ponte (e se ne parlava con elena in un post di qualche giorno fa): quei morti erano alcuni dei nostri, alcuni di noi; quel ponte era tutti noi.
Fortemente voluto da Solimano il Magnifico, venne realizzato nel 1556, in nove anni, dal geniale architetto Miram  Hajruddin, il quale, ben consapevole delle difficoltà tecniche di realizzare un ponte di quelle dimensioni con un'unica arcata, e temendo l'ira di Solimano, che gli aveva promesso la morte in caso di crollo, preparò il suo stesso funerale per il giorno in cui sarebbero state tolte le impalcature. Il ponte non crollò, e per secoli rappresento il simbolo della convivenza tra etnie diverse, cattoliche/croate, musulmane/bosniache, ortodosse/serbe. Quel ponte fu, per secoli, la vera e più autentica porta verso l'Oriente, come ci spiega Rumiz in un articolo che coglie la più profonda essenza di quello che non è solo un ponte, o che, meglio, del ponte, inteso come tecnologia di costruzione, riesce ad assumere tutte le più profonde valenze e implicazioni. 
Giustamente, di fronte al lutto per la perdita di un simbolo così importante, si pensa che la cosa più giusta da fare sia ricostruirlo com'era e dov'era, per restituirlo a tutti, musulmani, croati, serbi, all'umanità intera.
Ma quel ponte, che per secoli ha unito i quartieri croati a quelli musulmani della città, che per secoli è stato luogo di transito, di passaggio, di comunicazione (di traduzione, per riprendere quanto dicevamo prima a proposito dei confini), ora sembra aver incorporato un'invisivile barriera. Da soglia tra due anime della città, così dicono in tanti, esso sembra ora essere un limite invalicabile, e mentre prima si transitava senza nessun problema da un quartiere all'altro, negli anni successivi alla guerra sembrava che ognuno preferisse restarsene rintanato nel suo quartiere.
Rumiz, nel suo bellissimo racconto, ci dice del silenzio irreale che avvolse la città nei momenti immediatamente successivi al crollo: il ponte non c'era più, ma la sua anima sembrava essere ancora lì, e il silenzio era l'unico modo per salutarla; ciò che manca a questo nuovo ponte, continua Rumiz, è proprio quell'anima, perduta per sempre.
La poesia del racconto di Rumiz inevitabilmente mi porta a riflettere, da un ben più prosaico punto di vista semiotico, su quello che è il cuore stesso della mia ricerca: perché, anche di fronte ad un tentativo estremo di conservare quelli che vengono frettolosamente chiamati i segni della memoria, anche di fronte ad un ripristino integrale e filologicamente fedele (il progetto è stato in effetti realizzato a regola d'arte e si può parlare a tutti gli effetti di una ricostruzione à l'identique, con tutti i limiti connessi a questo tipo di interventi), la memoria condivisa, il "senso comune" di quel luogo è definitivamente mutato? Qualche idea ce l'ho, ma ora temo di essermi dilungato troppo, quindi ne parlerò in un altro post. Promesso.