domenica, febbraio 03, 2008

_delucidazioni sul titolo (e sull'oggetto della mia ricerca)

ed eccoci a noi: il titolo del blog: balkan-scapes. forse un po' pretenzioso, e certamente troppo ammiccante, quasi antipatico...
ma a questo punto devo mantenere la promessa e spiegarvi cosa c'entrano i balcani (e i suoi paesaggi) con uno studio sui rapporti tra politiche del restauro e memoria collettiva... 
in realtà c'entrano eccome: come è noto, per tutti gli anni Novanta i Balcani sono stati teatro di una serie di orribili e sanguinosi conflitti, scaturiti dalla dissoluzione della Jugoslavia socialista e dall'emersione di tendenze nazionaliste e indipendentiste da parte delle diverse repubbliche che componevano la Repubblica Socialista Federale Jugoslava, la creatura politica del generale Tito. "Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un solo Tito", recitava un adagio popolare in voga nel dopoguerra, e alla morte di Tito fu subito chiaro che l'equazione dell'adagio avrebbe presto smesso di funzionare. Così, dopo un decennio percorso da tensioni sempre più evidenti, la polveriera dei Balcani (per usare una tritissima metafora) era pronta ad esplodere di nuovo (altra metafora molto in voga tra storici e giornalisti). La morte di Tito ovviamente in realtà non spiega tutta la faccenda e, detta così, si tratta di una spiegazione buona solo per un cattivo articolo di giornale (o per un post da blog), ma avremo modo di tornare sull'argomento e di riflettere sulle ragioni di una delle più complesse guerre del secolo scorso, in cui elementi tipici di quelle che Mary Kaldor ebbe a chiamare nuove guerre (per definire i caratteri tipici delle guerre post-moderne) si mescolano con odi antichi, conflitti etnici, intolleranze religiose e nazionalismi d'altri tempi, ma anche con interessi economici e ambizioni di potere.
ma uno degli aspetti più centrali delle guerre jugoslave risiede nel fatto che esse sono diventate - forse più, forse prima di altri conflitti - l'emblema di un tipo di guerra e di aggressione diretta soprattutto ai valori civici, sociali, cosmopoliti rappresentati dai centri urbani jugoslavi. c'è chi ha parlato a questo proposito di un conflitto campagna/città e in ogni caso la dimensione etnica, religiosa e nazionalistica - quella che ha innescato le micce dell'odio tra stati che prima si consideravano legati dalla "fratellanza slava" - sembrava del tutto estranea ai valori etici e civici delle grandi città jugoslave, città come Belgrado, Sarajevo, Zagabria, Mostar, tutte con un'attivissima vita culturale e con una risaputa vivacità umana, con altissime percentuali di matrimoni misti, rari esempi di convivenza di etnie diverse. Città abituate al confronto con gli stranieri, "le uniche città sotto un governo socialista in cui, in piena guerra fredda, ogni cittadino poteva chiedere il passaporto", come amano ripetere quelli che forse rimpiangono un po' quello che - pur sapendo malauguratamente mostrare spesso la sua faccia dura, da regime - a volte sembrava tuttavia somigliare in definitiva a quel "socialismo dal volto umano" tanto vagheggiato negli anni '70 (ma forse sono la nostalgia e soprattutto il ricordo di un regime più recente a giocare brutti tiri...).
l'anima della guerre jugoslave sembra risiedere soprattutto in una parola forse un po' macabra ma profonda, non a caso coniata per l'occasione da Bogdan Bogdanovic, importante architetto serbo, ex sindaco di Begrado nei primi anni '90 e acceso contestatore di Milosevic: URBICIDIO.
l'urbicidio a cui sono state sottoposte le città jugoslave ha fatto scattare in me un interesse insano per il tessuto sociale e urbano delle martoriate città (ex-)jugoslave, un tessuto che non è mai sfondo inerte, né una scenografia, abitata e affollata dai suoi cittadini, ma che sembra, forse qui più che in altri posti, la carne viva, anche se scarnificata, di quel che resta della società (una volta) jugoslava, dei suoi frammenti, disiecta membra di un "corpo sociale" che si è ritrovato all'improvviso - e, o almeno così pare, suo malgrado o in maniera quasi inconsapevole - in una posizione scomoda, innaturale, in una posizione non sua. e se le città rappresentavano la mente, la coscienza del frankestein slavo, la consapevolezza di non esser più una cosa sola, di non esser più un corpo unico è arrivata in questi centri nervosi così sensibili quasi di colpo, quasi inaspettatamente, prendendoli alla sprovvista, facendoli reagire in un modo scomposto, inaspettato...
basta una passeggiata nel centro di belgrado per accorgersene, una corsa in taxi lungo la kneiza milosa: se allunghi la testa fuori dal finestrino, i ruderi di quel che era il ministero degli interni, così come erano il giorno dopo il raid nato, ti si pareranno innanzi come qualcosa di, non saprei come definirlo meglio per ora, perturbante (forse proprio in senso freudiano). e la perturbazione non sfuggirà neanche al taxista serbo, che non mancherà di indicarteli scuotendo la testa, raccontandoti un altro degli infiniti aneddoti serbi sulle bombe americane...
per arrivare al punto: guardare ai restauri, alle ricostruzioni, alle demolizioni o alla conservazione delle tracce della guerra tra le macerie ancora fumanti dei balcani post-bellici, può equivalere, questa è la mia scommessa, ad auscultare quello che ci può apparire a volte come un "corpo alieno", più complicato del normale, col quale le normali procedure di diagnosi difficilmente funzionano... 
se studiare le ricostruzioni che fanno seguito alle distruzioni delle guerre può diventare una lente per meglio entrare nelle memorie della società, quale paziente migliore dell'ex-Jugoslavia?

1 commento:

Anonimo ha detto...

francesco, per un progetto di studio che prende a oggetto di analisi le controversie (in questo caso sul restauro), potrebbe forse essere interessante un confronto con Latour 1987 (Science in Action) e poi 2005 (Reassembling the Social, in particolare cap. 3).
ciao, annalisa