sabato, novembre 22, 2008

_la vijecnica non sarà più una biblioteca

come vi avevo già annunciato, sono iniziati i lavori di ricostruzione della Vijecnica a Sarajevo, ma a quanto pare le autorità hanno deciso di cambiare la destinazione d'uso dei locali: non sarà più sede della biblioteca nazionale, ma solo di uffici amministrativi. una altro simbolo della sarajevo prebellica che "si affievolisce", che perde la sua forza semiotica?
maggiori dettagli qui.

lunedì, novembre 17, 2008

_ljubljana again

il 27-29 novembre sarò di nuovo a lubiana per intervenire ad un convegno sul tema Changing places, borders, memories. Ecco il programma.

giovedì, ottobre 16, 2008

_rekonstrukcija vijećnice


a quanto pare, a Sarajevo, sono da poco iniziati i lavori di ricostruzione della Vijećnica, la splendida biblioteca nazionale che andò a fuoco nel 1992 sotto le granate serbe e che conteneva tesori di inestimabile valore, come i preziosissimi codici miniati portati in dono alla città dagli ebrei sefarditi in fuga dalla Spagna e accolti dai saraijlje. nella foto, è visibile una impalcatura in corso di montaggio.

non conosco nessun dettaglio del progetto, immagino che si opterà per un restauro stilistico, vista l'importanza simbolica di questo edificio per la città. unica certezza: l'investitore è grad sarajevo, la municipalità della città.

mercoledì, ottobre 08, 2008

_convegno: luoghi e pratiche, 24-25 ottobre, Università di Bologna

La Scuola superiore di studi umanistici dell'Università di Bologna ospiterà, il 24 e il 25 ottobre, un convegno sul tema: Luoghi e pratiche. Costruzione, conservazione e trasformazione dei paesaggi culturali.
Qui trovate l'abstract del mio intervento, intitolato Cantieri della memoria. Trasformazioni urbane e strategie di autorappresentazione nelle città dell'ex Jugoslavia.

domenica, ottobre 05, 2008

_OT, I muri di Baghdad

segnalazione off topic rispetto all'oggetto centrale del blog, ma non rispetto ad uno dei suoi argomenti principali, le città divise, i confini intraurbani: ieri, a Baghdad, è stata rimossa una delle barriere che dividono il quartiere sciita da quello sunnita. Leggete qui per ulteriori informazioni.
Tutti sappiamo che le esigenze belliche ridefiniscono gli spazi urbani, li riterritorializzano, li piegano alle proprie strategie, ma cosa resta di tali riterritorializzazioni quando la guerra finisce? Probabilmente, il rovesciamento del paradigma clausewitziano operato da Foucault - secondo cui è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi, e non viceversa - vale anche per gli spazi urbani, che continuano a recar traccia delle "linee" tracciate dagli strateghi anche dopo che la guerra è finita, e non si tratta solo di una questione di divisioni etniche, ma di risemantizzazioni dello spazio che mettono ben in evidenza come non sia la guerra a piegare la città alle proprie strategie, ma è la configurazione urbana - con i suoi percorsi interni, con le sue reti e con le sue dvisioni - ad essere sempre e comunque risultato delle guerre che hanno prodotto tale ordine. La cosa, ovviamente, è più evidente in città dove gli eventi bellici sono recenti, ma virtualmente ogni città - a ben scavare nell'incoscio urbano - ha un "rimosso bellico" rielaborato in modi diversi, anche le città in cui non si è mai combattuto.

venerdì, settembre 26, 2008

_il violoncellista di sarajevo

da un'intervista a Vedran Smailovitch, diventato famoso come il violoncellista di Sarajevo perché negli anni dell'assedio suonò col suo violoncello l'Adagio di Albinoni sui alcuni dei luoghi dei massacri, tra le macerie ancora fumanti e sporche di sangue (nella foto, tra le rovine della Vijechniza, la Biblioteca nazionale distrutta dall'artiglieria serba):
- Ha mai pensato di tornare a Sarajevo? 
- No. Anche i miei amici sono sparsi per il mondo. Io stesso ho trascorso 49 giorni in un lager, ho troppi brutti ricordi. Se Joan Baez non mi avesse invitato, non ci sarei tornato. Non è più la città di una volta. 
- Perché? 
- La mia Sarajevo non esiste più, sono rimaste solo le case e i palazzi. Le persone che ci vivono sono malate dentro. Basta il suono di una sola granata per cambiarti per sempre la vita e farti perdere la ragione.
(da la Repubblica, 31 luglio 2008, intervista a cura di Stefano Giantin)

venerdì, settembre 19, 2008

_segnalazione: blog

Se vi interessano i temi di questo blog, probabilmente vi interesserà anche quest'altro, curato da Gian Maria Apuzzo. Il blog si chiama Metapolis-Città future e si propone di affrontare il tema della città e del suo futuro guardando anche alle situazioni di crisi urbane (città divise, ad esempio).
Andateci a dare un'occhiata, c'è pure un post dedicato all'urbicidio di Gori.

martedì, agosto 05, 2008

_chi si ricorda di Gavrilo Princip?

A proposito di memorie urbane che cambiano.
Le diverse fortune e le alterne memorie dell'attentato (e dell'attentatore) di Francesco Ferdinando a Sarajevo sono essenziali per capire il tormentato inconscio di questa città. Leggetevi questo post di francesca (puntuale e documentato, come sempre) per capirci qualcosa. 

lunedì, agosto 04, 2008

_l'odio tollerante di sarajevo

Stimolato dalle attente riflessioni di cicciosax a commento del mio post precedente, vorrei provare ad inaugurare un dibattito sulla reale natura del multiculturalismo della Sarajevo pre-bellica (aspetto dunque anche altre opinioni in merito).

Cicciosax si chiede giustamente: se il multiculturalismo di Sarajevo è di natura eminentemente "topografica" (ovvero: diciamo che sarajevo è una città multiculturale solo perchè chiese e moschee stanno vicine e nello stesso quartiere), in cosa essa è diversa, per dire, da Mostar, che indichiamo come esempio di città divisa per lo stessa "ragione topografica" (ci sono chiese e moschee nella stessa città)? Inoltre: è il multiculturalismo la "cifra" culturale di Sarajevo o piuttosto la compresenza di culture diverse costrette a vivere assieme e a tollerarsi sin quando possono (e quando non possono sono guai)?
A riprova della sua tesi, cicciosax cita Andric e il suo celeberrimo Lettera del 1920, che a suo tempo anch'io avevo citato per portare un esempio di una bella descrizione del carattere pluralista della città. Nel brano - che vi invito senz'altro a rileggere - si descrive la Sarajevo notturna attraverso i suoni e i rintocchi provenienti da chiese, minareti, che danno vita ad una sorta di dialogo/scontro a distanza: anche quando si dorme in questa città ci si odia, conclude amaramente Andric. Ma, per essere precisi, nel racconto non è Andric a parlare, o meglio, queste parole sono dall'autore messe in bocca a Max, austriaco ma nato e cresciuto a Sarajevo, nonché caro amico d'adolescenzadel narratore del racconto (il racconto è scritto in prima persona)e suo compagno "di formazione". Dopo averlo perso di vista, il narratore rincontra Max casualmente alla stazione di Bosanski Brod diversi anni dopo e lì, al termine di una conversazione che sembrava doversi concludere banalmente e convenzionalmente, Max gli confida la sua decisione di lasciare la Bosnia. Cosa lo spinge a lasciare la Bosnia? L'odio, risponde bruscamente Max. Il treno sta per partire, i due devono separarsi, non c'è tempo di chiarire. Giorni dopo, il narratore riceve una lettera da Max, in cui questo prova a dire ciò che non ebbe il tempo di spiegare nel loro incontro di qualche giorno prima. Farò qui delle lunghe citazioni, perché credo che il testo meriti. Così scrive Andric/Max:
"La Bosnia è una terra meravigliosa e appassionante, una terra fuori dal comune, per configurazione naturale e per i suoi abitanti. Come il sottosuolo della Bosnia nasconde grandi ricchezze naturali, così l'uomo bosniaco cela senza dubbio in sé grandi qualità morali, più rare che negli abitanti delle altre terre jugoslave. Ma, vedi, c'è qualcosa che la gente della Bosnia, perlomeno quelli della tua specie, dovrebbero riconoscere e non perdere mai di vista: la Bosnia è terra d'odio e di paura. [...] Da voi gli asceti non scoprono l'amore nella propria ascesi, bensì l'odio per i lussuriosi; i sobri odiano coloro che bevono, e in questi ultimi trovi un odio assassino verso il mondo intero. Quelli che professano una fede odiano a morte coloro che non la professano o ne professano una diversa; quelli che amano, odiano coloro che amano altro. [...] Voi siete, in maggioranza, abituati a coltivare tutta la forza dell'odio per ciò che più vi è vicino. Ciò che per voi è sacro, si trova a miglia e miglia di distanza, dentro a fiumi e montagne, mentre ciò che forma l'oggetto del vostro odio e della vostra ripugnanza e proprio lì accanto a voi, nella stessa cittadina, spesso a pochi metri dal muro del vostro cortile. Così il vostro amore non esige molti fatti, mentre il vostro odio passa ai fatti molto facilmente. Anche la terra che vi ha dato i natali, voi l'amate ardentemente, ma in tre-quattro modi diversi che si escludono a vicenda, si odiano a morte e spesso si scontrano".
E infine, il brano più sconcertante nella sua capacità profetica:
"una certa gentilezza falsa e conformista, la tendenza ad ingannare se stessi e gli altri con frasi pompose, o vuoti cerimoniali, contraddistinguono da sempre i circoli della borghesia bosniaca. tutto ciò dissimula alla bell'e meglio l'odio, ma non lo sradica.ho paura che in quei circoli possano sonnecchiare antichi istinti e progetti fratricidi e che essi coveranno sotto la cenere sino a quando non verranno intereamente rifatte le fondamenta della vita materiale e spirituale in Bosnia".
Queste parole andric mette in bocca all'amico austriaco (si noti bene: austriaco, come i dominatori e modernizzatori della bosnia); e alla fine sembra volersi prendere una rivincita sullo straniero che pretende di aver capito tutto, facendolo morire, nel racconto, in una cittadina aragonese, in Spagna, sotto un bombardamento durante la guerra civile (ironia della morte...).
Sarebbe troppo facile però pensare che Andric volesse mettere tali parole in bocca ad un austriaco per prenderne le distanze o per screditarle. Tanto perfetta - e tanto sentita - sembra essere la descrizione antropologica e sociale di questo presunto "carattere" bosniaco, che è difficile pensare che, nei momenti di maggior pessimismo, Andric non la pensasse esattamente come Max l'austriaco. E in tutta l'opera di Andric (anche se in realtà non la conosco proprio tutta) è presente questa continua oscillazione tra un sentimento positivo della convivenza e la certezza della presenza di un odio inestirpabile.
Di questo odio atavico, le tracce, nella Bosnia di oggi, sono ancora, forse più che mai, presenti: esso emerge da tutti i discorsi, dalle chiacchiere da kafana agli articoli di giornale.
E Sarajevo? davvero la sua presunta multiculturalità è solo un effetto di senso topografico, generato dalla semplice prossimità fisica delle diverse etnie? In parte sì, in parte no, come in tutta la Bosnia. Descrive bene questi meccanismi Karahasan, nel suo "ritratto interiore di Sarajevo", che racconta le dinamiche urbane della città: da una parte la bascarsia, a valle, il centro culturale, sociale e civile, dove ci si incontra, si fanno affari, si discute, si compra, si passeggia, ma dove non si abita; dalla'altra le mahale, sulle colline tutt'attorno la carsia, tutte raccolte attorno alla dimensione privata del vicinato. Proprio questo termine, vicinato, komsiluk in bosniaco, indica quella peculiare dimensione di continuo "scambio" con l'altro, che diventa controprova della propria identità (riporto con parole mie il concetto di karahasan).
Il fatto è che multiculturalismo, in bosnia, vuol dire soprattutto tolleranza, convivenza, secondo un modello probabilmente senza precedenti in tutta la storia recente. Forse un piccolo precedente, in effetti, c'è, ed è la Palermo dal nono al dodicesimo secolo, prima araba e poi normanna, in cui non ci fu mai assimilazione totale (in periodo arabo nei confronti delle culture presenti), né repressione (in periodo normanno nei confronti dei musulmani), ma una tolleranza virtuosa e prolifica in termini di sviluppo culturale e civile (un grande estimatore della palermo di quegli anni fu com'è noto Sciascia, che rivalutò fortemente l'impulso culturale di matrice araba in Sicilia). Non è un caso se prendo l'esempio di palermo: se per i siciliani decisiva fu la dominazione musulmana, anche per i bosniaci fu il periodo musulmano, come afferma Maria Todorova, quello che gli impresse il carattere più profondo. Solo che l'islam balcanico venne dall'impero ottomano, che però esportò un'idea di tolleranza che non cercò mai l'assimilazione né la coesione sociale: i diversi gruppi etnici bosniaci, a causa di ciò, formano quella che in semiotica chiameremmo totalità partitiva.
Da una parte, dunque, è innegabile che Sarajevo è stata da sempre pervasa da un grande senso di tolleranza; l'esempio classico è quello degli ebrei sefarditi, scacciati dalla cattolicissima Spagna e accolti a Sarajevo, ove portarono testi rari e preziosi e si integrarono, seppur non numerosissimi, nella vita civile dell'avamposto ottomano. Né vale la pena di ripetere la solita tiritera che prima della guerra nessuno sapeva del proprio vicino se era musulmano cattolico o ortodosso (che, a dirla tutta, c'era un regime con le orecchie dritte a reprimere ogni discorso del genere), né parlare della vita culturale della città, animata tra le varie istituzioni anche dall'associazione serba prosvjeta. Ma per dimostrare la multiculturalità e la tolleranza dei sarajlije basterebbe ricordare le giornate di Valter, organizzate, pochi giorni prima dell'inizio dell'assedio, spontaneamente, dai cittadini per difendere i valori civili della città unità contro i nazionalismi e finite nel sangue sotto il tiro inaspettato dei cecchini serbi appostati sull'holiday inn (a proposito, ricordate, la prima vittima non fu un berretto verde musulmano, ma una manifestante, una ragazza croata). Inaspettate, sì, perché tutti si rifiutavano di credere che ciò che era successo in Slovenia e Croazia potesse ripetersi proprio lì, nella "jugoslavissima" Bosnia. In fondo quelli che puntavano i loro cannoni dalle alture di Pofalici, del Trebevic e degli altri monti vicini erano quelli dell'Jna, dell'esercito Jugoslavo, che stavano lì per proteggerli... E anche quelli che avevano capito, facevano finta di niente, un po' perché a tenere la bocca chiusa non rischiavano di fare una brutta fine, un po' perché no, tutto ciò non poteva succedere nella città di Valter...
Dall'altra parte, in un altro senso, questa tolleranza e questo spirito di convivenza sembrano possedere, a Sarajevo, una natura del tutto peculiare, e sembrano incapaci di annullare le tensioni, di risolvere le tensioni. Anzi, è un castello di tensioni in equilibrio. Come in tutte le storie, i castelli prima o poi crollano: cos'è che ha fatto crollare (e farebbe crollare) il castello bosniaco della convivenza?
Forse un'altra citazione, rilasciata da Ejup Ganic, futuro ex presidente della FBiH, poco prima dello scoppio delle ostilità, potrà chiarire come il valore civico della convivenza sembrasse radicato a Sarajevo:
"Questa è la Bosnia. Tre diverse opinioni sulla stessa cosa, opinioni diverse, sulle quali non è possibile mettersi d'accordo, e che tuttavia sei costretto ad osservare sorseggiando il caffé. Il buon caffé bosniaco, questa calda, nera bevanda assicura la salvezza di questa repubblica. Non voglio neanche pensare a quando non sarà più possibile prendere assieme il caffé"
Ma Ganic si sbagliava, e negli anni successivi, a Sarajevo, non solo non sarebbe stato più possibile prendere il caffé con quelli che non la pensavano come te, era il caffé che non c'era più, c'era l'assedio...
Eppure, nonostante tutto, l'anima della Bosnia stava tutta in questa convivenza instabile, e la guerra ha fatto perdere alla Bosnia la sua anima. La migliore espressione della priorità dei valori civici e urbani me l'ha data l'anziano signore che si occupava della manutenzione di casa mia a Sarajevo: "sai io sono serbo, mi dice, sono ortodosso, ma sono amico di Senad [il padrone di casa], anche se lui è musulmano. Siamo amici da sempre, e abbiamo combattuto assieme". "Tu hai combattuto assieme ai musulmani?", faccio io. "Assieme ai musulmani? io ho combattuto assieme a tutti quelli che hanno difeso questa città. Se loro mi sparano, se sparano alla mia città, io rispondo, non sono serbi, sono bestie".
Infine, se vogliamo provare a rovesciare l'ipotesi "topografica": ma non è proprio la conformazione urbanistica e topografica della città a mostrarci il carattere autentico di tale difficile secolare convivenza? il fatto, ad esempio, che a Sarajevo non ci sia mai stato un ghetto, nonostante la presenza di minoranze (altra cosa era il quartiere latino dei croati o le mahale, il cui principio aggregatore, come abbiamo visto, non era tuttavia la religione, ma il komsiluk); il fatto che lo spazio centrale della città fosse uno spazio di confronto e di scontro civile con l'altro, uno spazio di traduzione, di "conversione", di rappresentazione della differenza, questo fa di Sarajevo una città unica.
E Mostar? Perché lì il discorso è completamente diverso? Perché a Mostar non c'è "compresenza", ma "concorrenza" di simboli, non c'è una carsia comune in cui incontrarsi e prendere un caffé. C'era una volta, ed era il ponte ed il suo kijundziluk. L'hanno ricostruito e restaurato, ma chi vive nella parte croata non va da quelle parti neanche nei suoi sogni più sfrenati. 
Ma Mostar la rimando al prossimo post, così posso correggere alcune delle ipotesi iniziali che avevo fatto in un vecchio post prima di visitare la città...
A proposito, per concludere restando in tema (il tema del blog): a Visegrad, vicino al ponte sulla Drina protagonista di uno dei suoi romanzi (e forse chiave di volta di tutta la bosnia), c'era una statua di Ivo Andric: è stata distrutta.

_13 anni fa l'Operazione Tempesta

Per capire bene le trasformazioni dei "balkan scapes" dopo le guerre, bisogna guardare alle trasformazioni demografiche e alle nuove geografie umane causate o imposte dagli eventi bellici: così Sarajevo, da città multietnica e multiculturale, dopo quattro anni di assedio ad opera delle milizie serbe, è oggi abitata quasi esclusivamente da bosniaci, mentre serbi, croati, ebrei sono quasi tutti scappati via; Mostar, da città "laboratorio-sociale", con il più alto tasso di matrimoni misti e di cittadini che si dichiaravano jugoslavi (per sfuggire alle logiche etniche o perché nati da coppie "miste"), ora è divisa (letteralmente) tra croati e bosniaci; Banja Luka, sede del pashaluk bosniaco durante la dominazione ottomana, con le sue bellissime moschee, tutte distrutte nel periodo 1992-1995 (compresa l'antichissima moschea Ferhandia, XV sec, già patrimonio Unesco), è ora abitata esclusivamente da serbi; Srebrenica è diventata il simbolo delle strategie di pulizia etnica dei nazionalisti serbi e, da cittadina a maggioranza musulmana, si è trasformata in una città a maggioranza serba.
Le terribili vicende di diaspora e pulizia etnica sono "leggibili" nei paesaggi urbani di queste città, ed è per questo che ritengo utile e interessante studiare le città, perché esse ci parlano di chi ci vive, ci parlano delle trasformazioni delle identità di questi popoli: le nuove "forme urbane" di queste città sono specchio delle nuove identità.
Sarajevo, il cui carattere multiculturale si manifesta anche nella struttura urbanistica, o nel fatto, per esempio, che nel raggio di neanche 500 metri si alternano chiese cattoliche, chiese ortodosse, sinagoghe, moschee, chiese evangeliste (già, anche chiese evangeliste), sta assumendo sempre più, attraverso l'edificazione di gigantesche moschee o attraverso interventi di ricostruzione "mirata", i caratteri di una capitale musulmana; a Mostar, dei serbi (che, sembra, se ne sono andati a seguito di accordi sottobanco tra esercito serbo e milizie croate), non restano neanche le tracce materiali (la grande cattedrale ortodossa è stata letteralmente rasa al suolo e restano solo poche macerie), mentre le divisioni etniche della città prendono forma nella gara in altezza tra minareti e campanili cattolici, che non si alternano in un regime di compresenza e tolleranza, come nella sarajevo prebellica, ma che diventano anzi dispositivi spaziali di marcatura del territorio; si è già detto delle moschee di Banja Luka e del tentativo di costruire una identità storica della città che sia esclusivamente serba e ortodossa, cancellando secoli di storia e di convivenza tra religioni diverse; si potrebbe scrivere a lungo di Srbrenica, del suo memoriale, che non parla a nessuno, o meglio, forse parla meno dello scheletro del palazzo energoinvest bruciato durante la guerra e che è ancora lì, o della scritta "ratko" che, mi raccontava un mio amico, fa ancora nella mostra di sé e nessuno ha avuto la forza di andare a cancellare.

Ma orientarsi nei labirinti delle memorie balcaniche non è per nulla facile, e qualunque bussola scegli, prima o poi ti porterà in una direzione sbagliata.

Cade oggi l'anniversario della cosiddetta Operazione Tempesta, offensiva militare condotta dalle milizie croate contro i serbi della Krajina, della Banija, della Lika, della Dalmazia del nord. A seguito di questa offensiva, il 5 agosto l'esercito croato occupa la città di Knin e inizia la pulizia etnica dei croati a danno dei serbi.

Il vecchio nome di Knin, quando era sotto il controllo di Venezia, era Tenin; ci visse a lungo anche una minoranza italiana. Dopo la seconda guerra mondiale, la città entrò a far parte del cosiddetto regno indipendente di Croazia, nonostante i numerosi serbi della regione avessero chiesto l'annessione alla Dalmazia italiana, preferita allo stato nazionalista croato. Furono anni di "prove tecniche di odio interetnico" tra croati e serbi (la cui eredità arriverà sino ai '90), con i massacri reciproci di civili serbi da parte di ustascia e civili croati da parte di cetnici.

Sotto la Jugoslavia di Tito, la città entrò a far parte della Repubblica federale di Croazia, ma con una fortissima maggioranza di residenti serbi. Dopo la secessione croata del '91, i serbi della Krajina dichiararono la loro indipendenza dalla neonata repubblica croata e proclamarono la Regione Autonoma Serba della Krajina, con capitale a Knin. Era da Knin che partivano gli attacchi serbi alle coste croate.
Con la caduta della Repubblica della Krajina nel 1995, i croati entrarono a Knin e iniziarono una violentissima campagna di pulizia etnica a danno dei serbi. Si calcola che il numero dei serbi uccisi o dispersi durante l'operazione sia di 1900 civili.


Il 5 agosto, in Croazia, è festa nazionale. Si celebrano le forze armate.

lunedì, luglio 28, 2008

_adriano sofri su karadzic

Le quattro vite di Karadzic macellaio della storia
di Adriano Sofri, da la Repubblica, 24/07/2008

Radovan Karadzic era un buffone, la storia, maestra di morte, lo promosse a gran macellaio, ora, a distanza di tredici anni, la cronaca l´ha estratto da un pubblico esercizio di omeopatia da strapazzo e di saggezza orientale. Nel suo sito aveva raccolto, "personalmente", un decalogo di "proverbi cinesi", per esempio "Chi non è capace di accordarsi con i suoi nemici, finisce per esserne dominato", oppure "Non puoi impedire agli uccelli del dolore di volarti sulla testa, ma puoi impedire loro di farsi il nido nei tuoi capelli".
Il dottor Dragan Dabic, è il nome della terza vita di questo miserabile – prima vita da cialtrone, seconda da macellaio all´ingrosso, terza da cialtrone, della quarta stiamo per parlare – non andò lontano a trovarsi i suoi nemici: i vicini di casa, i colleghi di lavoro, la gente di tutti i giorni che lo conosceva e si raccontava le sue avventure boccaccesche, le sue vanità da bellimbusto e le sue poesie d´accatto. Nella seconda vita i riflettori e le telecamere e i flash cominciarono all´improvviso a svolazzare attorno al suo completo di grigio e forfora, e lui non smetteva di sobillare il ciuffo. Nella terza vita, appena interrotta, sulla sua capigliatura di guru e nella sua barba di profeta gli avvoltoi potevano fare il nido.
Il Novecento è il secolo che va da una Sarajevo all´altra. La lunga avventura di quest´uomo ridicolo che le circostanze della storia – la storia! – e complicità e viltà dei grandi della terra promossero al rango fitto dei grossi assassini del Novecento trapassa ora, quando finalmente viene portato su un banco di imputato, nella tentazione della mitizzazione e della minimizzazione. Lo si leggeva già in parecchi commenti del giorno dopo. Quando la malvagità e il sangue esondano, si vuole trovare ai piccoli uomini che l´occasione ha reso grossi assassini una qualche grandezza, un fascino "mefistofelico", una predestinazione.
Andatelo a dire a Sarajevo, ai suoi colleghi di lavoro, ai poeti e agli scrittori di cui quella città è così ricca, alle donne di Srebrenica, che c´era qualcosa di grande in quel grande criminale. E il grottesco impudente narcisismo dell´ultima puntata, il dottor Dabic che compariva nelle televisioni locali a spacciare pillole di valeriana e di sapienza orientale, anche questo suscita l´ammirata incredulità degli osservatori, che lo prendono come un gioco, il bel numero di un illusionista: premessa ai numeri ulteriori che il banco d´imputato all´Aja gli offrirà l´occasione di allestire, come già fin troppo al suo collega belgradese, Vojislav Seselj, a beneficio della propria vanità e dell´orgoglio serbo-bosniaco.
È difficile alle persone "estranee", anche quando una notizia viene accompagnata dall´apposita didascalia – «è responsabile dello sterminio di decine di migliaia di donne e uomini, dell´eccidio quotidiano perpetrato per tre anni dalle alture della sua città contro i concittadini chiusi nella valle come in un recinto di mattatoio, degli stupri di massa programmati per sfogare odio, foia e disprezzo e per impadronirsi del ventre delle donne del nemico, della strage genocida di tutti i maschi di una cittadina proclamata rifugio delle Nazioni Unite» – sentire davvero di che cosa si tratta. «Hanno preso uno di quelli che cercavano da tanto tempo, uno di quelli della ex Jugoslavia, aveva una barba, certi capelli, non sembrava davvero lui, accanto alle vecchie fotografie...». Qualche cronaca più esperta approfondisce la cosa: «Non aveva nemmeno l´accento bosniaco», figurarsi, il vecchio trombone montenegrino...
Non lo trovavano? Neanche un anno fa, il nostro Gigi Riva scriveva sull´Espresso: «Ha una fluente, lunghissima barba. Veste con la tunica dei monaci ortodossi. Talvolta porta dei sandali ai piedi». L´hanno trovato, bastava dare un´occhiata nei monasteri ortodossi, è bastato dare un´occhiata sull´autobus. Dunque i telegiornali hanno mandato le immagini di Belgrado, con qualche pattuglia di fascio-serbisti impegnati a tirar sassate e appiccare un paio di roghi per protestare contro l´arresto, e, simmetricamente, le immagini di Sarajevo, con i cortei di auto e clacson e i ragazzi seminudi a festeggiare come per una vittoria calcistica. Tutto doppio, tutto simmetrico: il Karadzic di ieri e quello di oggi, i manifestanti di Belgrado e quelli di Sarajevo, l´America che loda la cattura e la consegna all´Aja, la Russia che obietta e chiede la chiusura del tribunale dell´Aja – non si sa mai, dovesse venire il giorno della Cecenia.
Tutto doppio: la fotografia dell´Eichmann del 1942, "così giovane, un ragazzo", e quella, "così stempiata", dell´Eichmann del 1960. (Quattordici anni dopo Norimberga: Karadzic stava per battere il record, è ancora in corsa Mladic, il macellaio in divisa). Ce ne volle di tempo per cominciare a capire chi fosse, chi fosse stato, quell´Eichmann, e ci si scandalizzò quando nel resoconto del processo di Gerusalemme Hannah Arendt nominò la banalità del male. Di fronte alla pazzia furiosa e sanguinaria del 1992-1995, come accontentarsi del dottor Dragan Dabic? Lo si promuoverà – seduttore, diabolico – o lo si ridurrà alla curiosità quotidiana – come ha fatto a travestirsi in quel modo?... Eppure assistiamo ogni giorno allo spettacolo della piccineria e del ridicolo che conquista il potere – "una farsa", ha detto bene il dottor Dabic.
A Sarajevo non c´era festa come quando si vince la partita: quelle erano immagini di bocca buona. A Sarajevo si conosce la meschinità dell´uomo e l´enormità del male.
Tredici anni non bastano nemmeno a dare una patina di oblio al lutto e alla disperazione di 43 mesi, di mille e trecento notti. «La morte è un capomastro serbo», scrisse uno scrittore vero, Marko Vesovic, calcando Paul Celan. La morte mieteva all´ingrosso e al minuto sulla città assediata, affare di granate e di bombe d´aereo, migliaia in un giorno, o di cecchini divertiti dalla gara al bersaglio più ambito – i bambini, più piccoli, punteggio più alto. Tutti i giardini della città assediata erano diventati cimiteri, nei cimiteri i morti giovani sorpassavano i vecchi, i professori bruciavano i libri per scaldarsi un po´ e tutti facevano la fame e le signore badavano a indossare almeno una biancheria intima decorosa, prima di uscire, per il caso di essere colpite e soccorse.
In questi giorni Mihaela Secrieru, di ritorno dall´11 luglio di Srebrenica, dove ancora in decine di migliaia si sono radunate a ricordare e dare sepoltura ai corpi esumati dell´anno, mi ha mostrato una quantità di immagini della nuova vita di Sarajevo. Mi hanno colpito soprattutto le chiome degli alberi, dei pioppi cipressini che svettano in gara coi minareti di Bascarsija: che si fossero restaurati i minareti me lo aspettavo, che i pioppi avessero risuscitato le loro fronde verdi sui moncherini mutilati dalla pioggia di granate, questo mi ha commosso di più.
È troppo facile figurarsi che cosa sia successo dentro i corpi e le anime dei sarajevesi. "Festeggiato"? Certo, hanno salutato la cattura di Karadzic come un pezzo di ciò che è giusto, che deve essere, che doveva essere da tanto tempo. Ma quella notizia arrivata nella notte da Belgrado (notizia di riscatto per Belgrado) ha grattato via la leggera vernice di normalità, gran traffico d´auto, bentornato inquinamento, ragazze dalle gambe lunghe e dalle gonne corte, e malavita e droga da tempo di pace, la vita, insomma, e ha restituito alla memoria di ciascuno le notti di allora, le notti ubriache dei boia di Pale e le notti di coprifuoco senza luce né sonno della gente di sotto, ammazzata dentro le sue stesse case, umiliata nei suoi stessi sogni.
Quella gente ha visto per anni, mentre faceva la fame e tremava di freddo e seppelliva i suoi, lo psichiatra ciarlatano che si passava la mano nella cresta di capelli e la concedeva ai grandi della terra, ai presidenti dell´Europa (Mitterrand!), ai capi delle Nazioni Unite. E a Pale e a Ginevra i giornalisti e le telecamere facevano la coda per sentirlo: privilegio della modernità, al tempo del ghetto di Varsavia e di Auschwitz non era così facile andare a intervistare Eichmann e brindare con lui. Questo dilettante di tutto, della paranoia e della strage, adesso andrà all´Aja. Magari è libera la cella che toccò a Milosevic.
All´Aja è interdetta la pena di morte. Tutto il resto gli è dovuto.

lunedì, luglio 21, 2008

_breaking news: Karadžić arrested

il lancio di BetaNews è di qualche minuto fa, ne riporto la traduzione inglese offerta da B92:

Radovan Karadžić arrested
21 July 2008 | 23:30 | Source: Beta

BELGRADE -- Hague Tribunal's war crimes indictee Radovan Karadžić has been arrested, Beta news agency reports.

According to the agency, the announcement came this evening from Serbia's Council for National Security.

The raid was conducted by the Serbian security forces and the war-time leader of the Bosnian Serbs has been taken to a judge with the War Crimes Court in Belgrade.

However, the location and time of Karadžić's arrest, as well as other details remain unknown at this point.

giovedì, luglio 03, 2008

_balkan_scapes 2.0

gli aggiornamenti - in questo blog - si sono fatti, causa impegni vari, sempre più rari, ma prometto che proverò ad essere più assiduo nei prossimi giorni. intanto vi metto qui il link al mio account di flickr, così vi beccate in anteprima alcune (per ora pochine, in verità) foto di scorci (ex)jugoslavi...

lunedì, giugno 09, 2008

_ljubljana


non c'entra niente con la mia ricerca, ma, giusto pour la petite histoire, mi sembra doveroso farvi sapere che sono a Ljubljana, ultima tappa prima del rientro.

sabato, giugno 07, 2008

_zagreb


ed eccomi a Zagabria, penultima tappa del mio faticoso rientro in italia. in effetti, qui non c'è molto da dire per la mia ricerca, in quanto la città, a parte qualche piccolo episodio e qualche danno trascurabile, non è stata travolta direttamente da grossi attacchi bellici.
Sarebbe interessante tuttavia provare a studiare come la retorica nazionalistica e il processo di costruzione dell'identità storica della Croazia abbia prodotto - qui come a Belgrado, per esempio - significativi mutamenti nella forma urbana. Sia qui che a Belgrado (e in altre città dei Balcani) si potrebbe dire che il "discorso del nazionalismo" si esprime anche attraverso semiotiche spaziali, riconfigurazioni di ambienti urbani, "reinterpretazioni" dei musei (numerosissimi in questa città, ma con collezioni totalmente nuove, in molti casi).

giovedì, giugno 05, 2008

_"la ricostruiremo piu' bella e piu' vecchia di prima"



questo disse il comandante dell'artiglieria serba che comandava il bombardamento della citta' dalmata di Dubrovnik, di fronte alla quale anche Napoleone, incantatato dalla sua bellezza, rifiuto' di puntare i suoi cannoni.
Sono arrivato in citta' ieri sera, dopo aver attraversato in autobus l'Hercegovina e i tanti posti di blocco di una frontiera "imperfetta", in cui ancora sopravvivono alcune larghe zone di "osmosi", una frontiera porosa, che ti impedisce di capire chiaramente "dove finiscono" i bosniaci e dove iniziano i musulmani (e meno male). Non e' come prima, d'accordo, e molti segni di "soglia" - mezzelune e scacchiere, croci e minareti - sono stati eretti a ricordarti che stai "cambiando posto". Basta fare una passeggiata in alcune zone di mostar - semza neanche bisogno di avventurarsi in percorsi extraurbani - per accorgersene.
In effetti Dubro e' stata ricostruita - bella e "vecchia" come prima. I turisti affollano lo Stradun, la via principale duramente colpita dai mortai nel '91 e nel '93, come se niente fosse successo. Gli abitanti della citta' non so, sembra una di quelle citta' fatte solo per i turisti, e penso che sara' difficile trovare qui qualcuno con cui parlare dei tempi della guerra, anche perche' il tempo a mia disposizione e' troppo poco, parto domani.
Comunque, ironia della sorte, la profezia del comandante serbo (anche se non sono stati i miliziani serbi a ricostruirla, loro sono riusciti a portare a termine solo la prima parte del loro "piano"), sembra essersi avverata e della guerra nessuno sembra ricordarsi.
continuo a chiedermi: e se fosse meglio cosi'? i problemi in questi paesi sono sempre di due tipi: troppa memoria, o troppo poca memoria. e se ricostruire fosse un modo per perdonare, anche quando il perdono e' difficile?

_tante cose da scrivere e poco tempo per farlo

quando ho deciso di aprire questo blog, la mia idea era quella di aggiornarlo quotidianamente, quasi fosse un diario di viaggio... forse pensavo che l'immensa dilatazione del tempo nei balcani mi avrebbe concesso ogni giorno qualche minuto di tempo per farlo. tempo non ce n'e' stato - e non ce ne sara' nei prossimi giorni, gli ultimi di questo mio rocambolesco ma istruttivo e divertentissimo pellegrinaggio in terra balcanica. avrei ancora tante cose da scrivere su belgrado, sarajevo, su mostar, soprattutto, dove mi sono fermato solo pochi giorni ma dove ho avuto la fortuna di vedere tante cose, guidato dal calore e dalla simpatia dei tanti mostarini che mi hanno accompagnato nelle mie gite urbane (ma gli stessi ringraziementi sono dovuti ai miei amici di belgrado e sarajevo... mostar e' stata l'ultima tappa e me n'e' ancora rimasto un pezzo attaccato, forse...).
non c'e' stato il tempo di fare quello che volevo, dicevo, col blog, ma anche con la mia ricerca: ho parlato con tante persone ma avrei potuto conoscerne molte di piu', ho scattato un sacco di foto, ma non abbastanza e sicuramente non le migliori... e tutto per la mia innata tendenza a rimandare a domani quello che potrei fare oggi (a belgrado una ragazza, quasi come se mi conoscesse da sempre, mi ha regalato una spilla con su scritto in serbo proprio questa frase, che purtroppo mi ha accompagnato per tutti questi giorni...). ma non e' stata solo colpa mia, i balcani sono complessi, tanto, e poco piu' di due mesi non bastano a comprenderli, ad abbracciarli tutti, in senso fisico proprio...
mi sono fatto catturare dagli interminabili caffe' accompagnati da 500 sigarette, dalle tante, troppe forse, loza serali, dal cazzeggio dei sempre affollatissimi, a qualunque ora del giorno, bar balcanici (ma chi lavora qui, se stanno sempre tutti al bar?). ma non rimpiango il tempo cosi' "sprecato", le poche cose che ho imparato di questi posti in fondo le ho imparate tutte nelle kafane, nelle burekžinica, nelle panchine dei parchi...
ho una marea di appunti, di foto, di registrazioni e soprattutto di ricordi. e ricordi soprattutto di persone, non di luoghi. cosa che potrebbe sorprendere dato il tema della mia ricerca, che voleva interrogarsi sui luoghi e sui loro sensi. ma sono stati tanti piccoli sensi individuali a svelarmi altrettanti piccoli sensi di questi luoghi.
recuperero' al mio ritorno in italia, postando tutte le riflessioni che avrei dovuto scrivere "in diretta" e che appuntavo qua e la', in linguaggi e modalita' solo da me comprensibili, nei posti piu' improbabili. provero' a tenere in vita, cambiandone il progetto originario, questo blog, usando i pochi momenti in cui posso usare internet per postare piccoli aggiornamenti e segnalazioni.
ve ne do' subito una, ma non dovete ringraziare me, ma Maja, che mi ha fatto conoscere questo fotografo straordinario, Ron Hazin, che della guerra in ex-jugo ha saputo cogliere l'anima piu' profonda solo attraverso piccoli dettagli quotidiani, di una quotidianita' di guerra, a volte cosi' difficile da rappresentare o anche solo da immaginare...
infine, un saluto a cicciosax e a tutti gli amici di burekeaters: tenete duro, abbiamo bisogno di voi.

giovedì, maggio 29, 2008

_mostar!

sono a Mostar da ieri! scrivero' qualcosa non appena trovero' il tempo...

domenica, maggio 25, 2008

_ilidza

Piccola premessa a questo post: prima di arrivare a Sarajevo mi sono, ovviamente, preparato un po' e ho letto qualcosa sulla città: il libro di Karahasan, "Esilio di una città", un must per chiunque si sia messo in testa di studiare questa città, ma anche un'analisi lucida e intrisa di poesia che mette bene in evidenza il "sistema di frontiere culturali" presenti a Sarajevo; il documentatissimo e accurato "Sarajevo: a Biography", di Richard Dona, altra pietra miliare di ogni bibliografia completa sull'argomento, e alcuni altri. Tra le altre cose, mi è capitato tra le mani l'eccellente saggio di Laura Cipollini contenuto in una recente uscita editoriale di Bruno Mondadori, Città e memoria, in cui si prova a fare ciò che sto provando a fare anch'io, ovvero tracciare delle specie di "mappe della memoria" a partire dai percorsi, dagli attraversamenti, della città, a partire dai suoi "usi" e dai differenti modi di viverla, ma a partire anche dai tanti "discorsi" su di essa. Il saggio della Cipollini è stato una delle mie "guide" per i miei personali attraversamenti di questa città, anche perché, come ho detto, la prospettiva da cui l'autrice guarda il paesaggio urbano di Sarajevo è molto vicina a quella che sto provando ad adottare io. Il paragrafo finale del saggio, intitolato "Il caso Ilidza", tratta di questa parte della città, durante il periodo austro-ungarico stazione termale molto frequentata dagli austriaci, nonché luogo di scampagnate e pic-nic vari per i sarajevesi in cerca di aria pulita e di verde (in città non ce n'è molto). L'autrice conclude il paragrafo affermando che secondo lei, dopo la guerra (durante l'assedio questa parte era in mano ai serbi) qualcosa si è rotto nella catena semantica che collega Ilidza alla città vera e propria, ed essa non è più così frequentata dai sarajevesi.
Sono andato oggi, una soleggiata domenica mattina, ed ero già andato il primo maggio (la festa del lavoro, qui, cade il primo e il secondo di maggio, e come da noi, si va "fuori porta" in cerca di verde e aria pulita). ebbene, la mia impressione è che Ilidza costituisca ancora, per i Sarajevesi, una parte importante della città, e che il suo significato non sia mutato più di tanto dopo la guerra. certo, anche qui sono presenti segni di guerra e rovine varie, ma i parchi sono affollati di ragazzi che giocano a pallone, i viali di coppie che passeggiano, i bar di famiglie e
gruppi di amici che parlano e ridono... insomma, questa "rottura della catena semantica" non l'ho vista, né l'hanno vista le persone che ho intervistato e con cui ho parlato, che considerano ancora Ilidza il posto, per eccellenza, delle scampagnate domenicali.
questa cosa vale in generale, secondo me, per molte altre parti della città, di cui i sarajevesi si sono riappropriati tentando, con alterni successi, di riattribuire ai diversi luoghi gli stessi significati che essi avevano prima della guerra. basti pensare al professore di filosofia che ho intervistato l'altro giorno, che mi ha detto di vivere in uno dei palazzoni di Grbavica in cui durante l'assedio si erano piazzati i cecchini serbi, e la cosa non gli fa nessuna particolare impressione, al massimo pensa al fatto che sia lui che il cecchino prima di lui hanno condiviso la stessa bella vista sulla città...
il caso Ilidza, insomma, è esemplificativo di una strategia complessiva che sembra accomunare, direi (ma non me la sento di generalizzare), la gran parte dei sarajevesi, ovvero quella di riallacciare le catene semantiche interrotte, di rimuovere il ricordo della guerra. Per molte delle persone con cui ho parlato è quasi come se la guerra, qui, non ci fosse mai stata, o meglio, in un senso più difficile da spiegare, come se non fosse mai finita (su questo ci tornerò, ma intanto leggetevi il post sul monte trebevic per una prima anticipazione).
se c'è un posto che la guerra ha tagliato fuori da sarajevo, e che prima costituiva invece una parte importante della città (come nota intelligentemente anche Laura Cipollini), quello è proprio il monte trebevic, anche quello, prima della guerra luogo di scampagnate e feste, sede delle olimpiadi invernali, collegato alla carsia attraverso una funicolare distrutta dalle granate nel periodo dell'assedio; adesso nessuno ci va; sì, ok, non c'è più la comoda funicolare... è vero, in alcune zone ci sono pure le mine... ma non è solo questo. La gente di qui, il monte Trebevic a volte ha paura pure solo a guardarlo, è come sparito dalla percezione dei cittadini, nonostante non possa mai sottrarsi allo sguardo di chi passeggia in centro lungo il fiume, ad esempio...

sabato, maggio 24, 2008

_sarajevo città divisa


ieri sono andato a visitare Sarajevo Est, istocno Sarajevo, ovvero la parte della città assegnata dagli accordi di Dayton alla repubblica Srpska. Sarajevo è, infatti, una città, dal punto di vista amministrativo, divisa, ed una parte di quello che una volta era territorio cantonale si trova al di fuori della federazione. Nessun confine vero, nessuna frontiera, nessun posto di blocco: si prende un autobus sino a Dobrjinja, la periferia est della città, verso l'aeroporto, si scende al capolinea, si fa qualche metro a piedi, si attraversa un'anonima rotonda di periferia, e si è in repubblica serba, dall'altra parte della barricata.
si tratta, è vero, di una divisione amministrativa, di un contentino dato ai serbi che miravano a dividere la città e prendersene una più grossa fetta, ma è più che evidente, anche dopo una superficiale osservazione delle dinamiche urbane che riguardano questa parte della città (che sino a qualche anno fa si chiamava ufficialmente Srpsko Sarajevo, ma a cui è stato imposto di cambiare il nome con un appellativo più neutro), che non è solo un problema amministrativo.
Non c'è nessun confine visibile, dicevo, ma ci sono comunque tanti indizi che rendono evidente che si sta attraversando un confine di qualche tipo. Ad esempio: la presenza massiccia del cirillico, assente nel resto della città se non in alcuni edifici pubblici dove è obbligatoria la doppia grafia; le differenti tabelle che indicano i nomi delle vie: in blu (come in serbia) e non in verde, con nomi tipicamente serbi (vojvode putnika ecc) e in cirill; niente minareti ma solo una grande chiesa ortodossa. L'aspetto è quello di una normale periferia, molto terrain vague, e tale è nella percezione dei sarajevesi, che non la considerano neanche città, ma già campagna. 
Non è lo stesso per i serbi che vivono qui, che considerano questa parte periferica della città un centro urbano vero e proprio, dal quale escono raramente se non costretti. C'è tutto: le bancarelle lungo la strada (ed è strano, perché si trovano su un vialone di periferia e, significativamente, spariscono nella parte della strada che appartiene alla federazione), gente che passeggia e fa shopping, un centro commerciale, negozi e ristoranti, persino un'università e, come ho già detto, la chiesa. 
questa anonima rotonda di periferia racchiude tutte le contraddizioni, le follie e le precarietà degli equilibri politici, sociali, istituzionali, di questo paese.

mercoledì, maggio 21, 2008

_piccola provocazione

e' una provocazione (come annunciato), ma queste nuove gigantesche moschee (vedi post precedente) non possono non richiamare alla mente l'enorme cattedrale belgradese di Svetog Save, che, quando sara' completata (chissa' quando), acquisira' l'invidiabile primato di chiesa ortodossa piu' grande del mondo.
lo so, sono vicende completamente diverse, ma l'enfasi che e' stata posta nel completamento della cattedrale, che e' diventata un po' il simbolo di Belgrado (e che possiamo ammirare in una splendida foto tratta da wikipedia, scusate ma non avevo tempo di ridimensionare le mie, lo faro'...), richiama un po' la retorica architettonica delle nuove moschee.
per riassumere un po' la tribolata vicenda di San Sava, l'attuale tempio sorge ove, nel '500, sorgeva una chiesa ortodossa distrutta durante l'invasione ottomana. i lavori iniziarono a fine '800, ma furono interrotti piu' volte a causa delle guerre balcaniche di inizio novecento e della seconda guerra mondiale. durante il periodo di Tito, ovviamente, tutte le proposte di riprendere i lavori furono lasciate cadere nel vuoto, e l'area, per molti anni, e' stata adibita a deposito/parcheggio. Dal 1989 i lavori sono reiniziati in pompa magna, tra cerimonie di consacrazione e messe varie.

_articolo sulle nuove moschee bosniache

a conferma del post sulle nuove architetture del sacro a sarajevo, ho trovato, su osservatorio balcani, un'intervista alla storica Amra Hadzimuhamedovic.

_errata corrige

ieri avevo scritto dei restauri della moschea di Gazi Husrev, attribuendo - come molti prima di me - i risultati dell'intervento di rimozine delle decorazioni alla volonta' dei finanziatori wahabiti.
ebbene, non c'e' stato nessun finanziatore wahabita! oggi ho parlato con un funzionario dell'istituto per la protezione dei beni culturali del cantone sarajevo che mi ha spiegato come in realta' i lavori di restauro sono stati condotti da un team internazionale (con esperti anche italiani), che hanno optato per la scelta di un restauro di "ripristino" estremo.
sono in attesa di informazioni certe - perche' su questi restauri e' stato scritto di tutto e non e' del tutto chiaro come sono andate le cose - ma in ogni caso sembra che l'idea del primo intervento era quella di riportare l'opera ad un presunto "stato originario", rimuovendo i vari strati che si erano accumulati nei secoli. un po' quello che e' successo, ad esempio, per il restauro della cappella del santo sepolcro di santo stefano a bologna (cito questo esempio perche' ho studiato un po' i restauri di questa chiesa), nel corso del quale sono state rimosse tutti gli affreschi, decorazioni e offerte votive che riempivano la sala, riportandola a quello che si pensava fosse l'originario aspetto romanico. su quanto interventi del genere siano opportuni - sul fatto, ad esempio, che non esiste uno "strato" originario, sul fatto che ogni intervento di restauro e' sempre un'interpretazione e sul fatto che un buon intervento dovrebbe riuscire a preservare tutte le fasi storiche che consentono una buona "leggibilita'" dell'opera - non voglio soffermarmi in questa sede, voglio approfondire pero' i moventi culturali e ideologici che hanno portato a scegliere per un'opzione cosi' radicale di restauro. seguirano aggiornamenti...

martedì, maggio 20, 2008

_a proposito di croci e mezzelune


chi viene a Sarajevo in aereo non potra' fare a meno di notare, nel tragitto in taxi dall'aeroporto alla citta', un'enorme moschea, di stile moderno, che svetta sgomitando tra i palazzoni stile funzional-socialista di novo sarajevo. si tratta della moschea di Re Fahd, costruita nel 1997 con soldi provenienti dall'Arabia Saudita (vedi foto, la seconda non è mia).
proseguendo la sua corsa in taxi, il nostro visitatore incontrera' altri esempi di enormi moschee monumentali, gigantesche, poste su alture o su ampi slarghi, con due, tre, quattro minareti... quando raggiungera' il centro della citta', la baščaršia, il nostro visitatore straniero, i cui occhi si saranno gia' abituati a questi monumentali esempi di moschee di periferia, si aspettera' degli edifici religiosi altrettanto monumentali anche nel tessuto urbano della citta' storica.
ebbene, restera' deluso: le moschee della citta' storica, quelle piu' antiche, devono essere scovate, cercate con attenzione passeggiando per le strette stradine del quartiere ottomano. per trovarle bisogna sollevare la testa alla ricerca degli snelli ed eleganti minareti (mai piu' di uno per moschea) che ne segnalano la presenza, o aspettare il canto del muezzin (nelle moschee piu' antiche non si usa amplificarlo con altoparlanti, quindi bisogna stare molto attenti) per orientarsi nel dedalo di viuzze.
Le moschee tradizionali di Sarajevo sono cosi', discrete, senza sfarzi, si inseriscono mimetizzandosi tra le eterogenee architetture religiose della citta' (cattedrali cattoliche, chiese ortodosse, templi giudaici, chiese evangeliste). Discrete, come discreto e' il senso di appartenenza religiosa dei musulmani di Sarajevo, solitamente lontano da fanatismi e integralismi.
Dalla fine della guerra, in Bosnia sono state costruite centinaia di moschee, molte a Sarajevo. Da uan parte, l'alto numero di nuove costruzioni ha cercato di compensare le tantissime distruzioni (a Banja Luka pressocche' tutte le moschee sono state rase al suolo, ma lo stesso tragico destino, nel resto della Bosnia, e' toccato a chiese cattoliche e ortodosse e sinagoghe); dall'altra parte, il motivo di tante ricostruzioni risiede nei vari interessi relativi alle ricostruzioni post-belliche: interessi non solo economici ma anche, in questo caso, di "colonizzazione culturale": e' il caso di tanti paesi arabi che hanno finanziato la costruzione di nuove moschee, "infiltrando" imam provenienti dai quei paesi, e che predicano un islamismo radicale estraneo ai valori di questa citta'.
parlando di restauri, che dire del restauro, finanziato da alcuni religiosi sauditi, della moschea Gazi Husrev - costruita nel 1531 e considerata uno dei piu bei esempi di architettura ottomana del mondo - che, in ottemperanza ai dettami del wahabismo, ha spogliato gli interni della moschea di tutte le ricche decorazioni?
prima del restauro
dopo i restauri "jugoslavi", prima, e sponsorizzati dai wahabiti, subito dopo la guerra

per fortuna la citta' ha conservato, nonostante il mutato clima, un grande spirito di tolleranza e di laicismo e, soprattutto, un grande senso di ironia (le battute su queste nuove moschee in citta' si sprecano). gli stessi religiosi della moschea hanno avviato qualche anno fa altri lavori di restauro per ridare alla chiesa l'aspetto originale

sabato, maggio 17, 2008

_una croce ortodossa sul monte trebevic?

In questi giorni, a Sarajevo, fa molto discutere la proposta lanciata dall'associazione serba dei prigionieri di guerra di edificare un monumento alla memoria dei serbi uccisi dai musulmani. Il memoriale avrebbe la forma di un'enorme croce (alta 26 metri e larga 18) e dovrebbe sorgere sul monte Trebevic, una delle postazioni da cui l'artiglieria serba prendeva di mira la città negli anni dell'assedio.
Il primo ministro della Republika Srpska, Milorad Dokic, si è dichiarato disponibile a sostenere economicamente il progetto, che ha invece incontrato le rimostranze dell'associazione delle vittime di guerra e del sindaco di Sarajevo, secondo cui la proposta costituirebbe un insulto alle migliaia di vittime bosniache del conflitto.
Il monte Trebevic è uno dei punti per cui passa la linea di frontiera che divide le due entità che formano la BiH: la Republika Srpska e la Federazione Croato-Bosniaca, e pur trovandosi in territorio "serbo" (le virgolette sono quanto mai d'obbligo), la croce sarebbe visibile pressocché da ogni parte della capitale (tanto è vero che da quel monte i nazionalisti serbi potevano colpire quasi qualunque punto della città).
L'altro giorno una ragazza mi spiegava come quindici anni fa in bosnia si sparava coi fucili, e come adesso si continua a sparare, con le parole. Dal monte Trebevic non cadono più granate, ma ci sono tanti modi per ferire la popolazione di una città che ha sofferto tanto...
(nella foto, il monte Trebevic, visto da Sarajevo)

venerdì, maggio 16, 2008

_ci citano!

a parte la citazione, leggetevi questo articolo sul ponte di mostar, e' piuttosto interessante.

mercoledì, maggio 14, 2008

_survival map

come orientarsi in una città assediata?

_il più bel monumento alle vittime della guerra

nota: l'iscrizione forse è illeggibile nella foto, dice, in inglese, francese, tedesco e serbo-bosniaco-croato, "sotto questa pietra c'è un monumento alle vittime della guerra e della guerra fredda"

martedì, maggio 13, 2008

_alcune foto

La biblioteca nazionale (Vijecnjca), distrutta dall'artiglieria serba nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992.

Il palazzo del parlamento. Il grattacielo è stato restaurato, rispettandone il disegno originale ma modificandone l'aspetto attraverso il ricorso a materiali tipici dell'architettura post-moderna, come superfici trasparenti (una scelta che accomuna tutti i restauri dell'area che va da Marijndvor all'aeroporto).

UNIS tower, un altro simbolo dell'assedio di Sarajevo (anche loro ricostruite).

_primo post da sarajevo (primo post vero...)



lo so, ultimamente ho latitato un po' troppo, ma non ho una connessione nella casa dove vivo (nella mahala di Pofalici) e devo sfruttare al massimo i pochi minuti al giorno in cui posso disporre di una connessione internet.
adesso ho voglia, però, di buttare giù alcune prime, frammentarie, osservazioni su questa splendida città.
la prima considerazione riguarda, ovviamente, e non potrebbe essere altrimenti, dato l'argomento del blog, i "segni di guerra" ancora tristemente presenti in tutto il tessuto della città. se a belgrado la presenza delle rovine prodotte dalle bombe del '99 poteva generare questo effetto, come l'avevo definito, "perturbante", dovuto alla lacerazione (puntuale) del tessuto urbano, a sarajevo la diffusione di tracce dell'assedio del '92-'95 (solo per capire e ricordare: 10000 morti circa, di cui più di 3000 bambini) è così pervasiva da costituire quasi un arredo ineliminabile dall'ambiente cittadino.
una seconda considerazione riguarda invece le ricostruzionie i restauri: svariati e importanti interventi hanno avuto luogo negli ultimi anni, e la prima sensazione è che si sia seguita una doppia strategia: per quanto riguarda il centro storico, ripristini e restauri stilistici; per quanto riguarda la primissima periferia, quella collegata dall'asse che va da Marjindovor (alla fine della carsia, il centro della città) a Novo sarajevo, (asse tristemente famoso per essere stato ribatezzato, durante la guerra, sniper alley, viale dei cecchini), ricostruzioni (alcune anche "fedeli", vedi il caso delle torri gemelle Unis, altro simbolo della città durante la guerra) che stanno portando ad una totale riconfigurazione dell'aspetto della città.
maggiori dettagli nei prossimi post, intanto vi annuncio una serie di post fotografici...

mercoledì, aprile 30, 2008

_sarajevo!


un aggiornamento velocissimo per segnalarvi che sono arrivato a sarajevo e sono in cerca di una connessione stabile per aggiornare il blog. provero ad essere piu regolare negli aggiornamenti, percio stay tuned!

venerdì, aprile 18, 2008

_memory lost?!

Belgrado 17-04-08, palazzo Albanjia a Terazjie, ore 23 circa:
comprenderete che la comparsa improvvisa di una scritta del genere può mettere in crisi un dottorando che si sta occupando di città e memoria...

mercoledì, aprile 16, 2008

_i sensi delle rovine

uno dei quesiti principali della mia ricerca riguarda, come è noto ai miei lettori più affezionati, il significato - politico, sociale, culturale - assunto nel corso degli ultimi nove anni dalle rovine prodotte dai bombardamenti della nato a belgrado.
mi sto concentrando in particolare su questi edifici (e più in particolare su quelli presenti nel centro della città) perché credo che la memoria viva di una città non vada cercata tanto nei monumenti, nei memoriali, o nei posti progettati con l'intento esplicito di conservare una memoria, ma nelle zone e nelle parti di essa dove essa "si produce" autonomamente, in maniera incontrollabile, spontanea. il mio interesse riguarda dunque soprattutto quella che potremmo chiamare la mémoire involontaire di una società.
per questi motivi, mi sto interessando nello specifico agli edifici di kneza milosa, perché essi rappresentano, per la città, un ricordo ancora vivo di un evento storico non ancora del tutto metabolizzato, un monumento involontario alla memoria di una parte della propria storia rispetto alla quale la società serba fa ancora fatica a rapportarsi.
l'"involontarietà", la spontaneità di questa memoria presta però spesso il fianco a "usi" più o meno politici di essa. in un post di qualche giorno fa, facevo riferimento alle manifestazioni politiche (come quella di febbraio post-indipendenza kosovo) che si concludono nel palcoscenico di kneza milosa. in quel post mettevo in evidenza come un ruolo principale, in questa scenografia che mette in scena tutti i poteri - statali (ministeri dell'interno e degli esteri) ma soprattutto internazionali (varie importanti ambasciate) -, è svolto proprio delle rovine, che si collocano a metà e alla fine di questa importante arteria stradale.
Soprattutto quelle del Generalstab (l'edificio progettato da Dobrović) svolgono un ruolo fondamentale: per la loro visibilità, per la loro centralità, per lo stridente contrasto che producono con l'ambiente circostante (costituito da architetture governative neo-classiche). Tutte le manifestazioni, solitamente, passano o si concludono in questo punto della città, l'incrocio tra k milosa e nemanjna, dove sono presenti, per l'appunto il "vlada" (uffici del primo ministro e del governo) il ministero degli esteri e le rovine dei palazzi (ex federali) di dobrovic. Esiste quindi una continua produzione mediatica di immagini di proteste che hanno, per scenografia, l'aggressione nato, e quando i giornali o le televisioni diffondono le immagini delle manifestazioni, le rovine stanno sempre lì, sullo sfondo. ai "sensi sociali" delle proteste si assommano dunque gli instabili (valorialmente) "sensi" delle rovine, e l'effetto finale di questa sommatoria, la risultante delle forze semiotiche in gioco, è sempre variabile e imprevedibile. Queste rovine riescono comunque sempre ad essere un efficace serbatoio di significati, variabili a seconda del discorso in cui sono inseriti.
e il problema della memoria in serbia, a volte, sembra essere proprio questo: è un deposito, disordinato e caotico, dove chi vuole può pescare quello che gli serve per i suoi fini, che sia democratico, conservatore, nazionalista, liberale e chi più ne ha più ne metta.
qualche giorno fa ho assistito ad uno sciopero che si è concluso con il blocco di kneiza milosa per qualche ora. indovinate quale punto della strada è stato scelto per il blocco?


martedì, aprile 08, 2008

_ancora generalstab

ancora una segnalazione dal blog di sajkaca, che non ringrazierò mai abbastanza e il cui blog dovrebbe essere per certi versi considerato la succursale di questo (o viceversa!). 
interessante in particolare le considerazioni finali sul perché non si ricostruiscono i palazzi progettati da dobrovic; sajkaca individua tre possibili cause: 1. non ci sono soldi, 2. il progetto di dobrovic è "troppo jugoslavo", 3. rappresentano il "vuoto" d'identità attualmente presente in serbia.
sono d'accordo con tutte e tre le ragioni, ma la più pregnante è secondo me l'ultima: non si ricostruisce perché non si sa cosa ricostruire e al tempo stesso, a volte, le rovine tornano comode a belgrado, come monumento alle vittime di una guerra per la quale in serbia, per ovvie cause, ancora si fatica ad elaborare una coerente politica della memoria.
intanto, a quanto pare, dalle informazioni che ho raccolto in questi giorni è emerso che probabilmente i lotti dove attualmente si trovano le macerie in kneza milosa verranno venduti a privati (uno, quello alla fine della via, è già stato venduto) e in quei luoghi, in un prossimo futuro, sorgeranno hotel e palazzi residenziali. una scelta che rivela la volontà di rinunciare a fare i conti con gli eventi del recente passato che per i serbi sono ancora (anzi forse in questo periodo più che mai) difficili da rielaborare.

venerdì, marzo 28, 2008

_la torre della televisione del monte avala

vi invito a leggere questo post di sajkaca (assolutamente attinente ai temi trattati in questo blog) sulla torre delle televisione che sorgeva sul monte avala a belgrado, distrutta dai bombardamenti e ora in ricostruzione.

giovedì, marzo 27, 2008

_segni di guerra



ho osservato molto, in questi giorni a belgrado, la zona di kneiza milosa, la via dove si affacciano ambasciate, monumentali uffici governativi e le ormai famose (almeno per chi frequenta questo blog) macerie prodotte dalle bombe Nato. 
Kneiza Milosa è una sorta di red carpet governativo per la città, un tripudio di palazzoni, colonne, cupole e soprattutto bandiere, canadesi, croate, tedesche, americane, polacche... tra tutte spiccano le immense bandiere serbe, tutte nuove fiammanti, con il nuovo emblema serbo ricomparso dopo l'indipendenza del Montenegro - aquila bicipite, scudo con le quattro C, corona che tradisce forse una certa nostalgia per la monarchia (le pretese al trono di colui che pensa di essere il legittimo erede, Alessandro Karadjordjevic, si sono intensificate a partire dal 2000). La presenza massiccia di bandiere serbe coi loro colori accesi genera un fortissimo contrasto cromatico che spezza la monotonia dell'onnipervasiva scala tonale del grigio (tutta presente qui) che caratterizza invece questi colossali edifici, un grigio derivante probabilmente anche dal fortissimo smog sempre presente nell'aria.
Ma questa lunghissima arteria - attraversata da ben cinque corsie percorse ad ogni ora del giorno e della notte da automobili (alcune lussuosissime, la maggior parte scassatissime yugo) che rendono l'aria davvero irrespirabile, e attraversata, durante il giorno, da veri e propri fiumi di gente - questa importante strada, dicevo, non è solo un quartiere governativo ma è diventata, in effetti, negli anni, un piccolo palcoscenico, dove, nei momenti di maggiore crisi, la popolazione serba mette in scena le proprie proteste, le proprie rimostranze nei confronti della comunità internazionale.
Oltre a kneiza milosa, l'altro importante spazio "topico" di ogni manifestazione o protesta, è l'enorme spiazzo antistante il Parlamento serbo, non distante da Kneiza Milosa, vicino Kralja Milana, l'altra via principale del centro (in kneiza milosa è il potere politico a mettersi in scena, in kralja milana forse più quello economico). davanti il parlamento i serbi si raccolgono nei momenti difficili (vi ricordate quando l'edificio che lo ospita venne dato alle fiamme nel 2000 per sancire definitivamente il no dei serbi a milosevic?), a kneiza milosa i serbi vanno per fare sentire la propria voce agli altri stati.
questo percorso sintattico ha caratterizzato anche le recenti proteste del 21 febbraio scorso a seguito della proclamazione dell'indipendenza del Kosovo: grande adunata con comizi davanti al parlamento, poi sfilata sino alle ambasciate straniere per protestare contro chi aveva riconosciuto la decisione di pristina; quindi, i disordini, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, mostrandoci una sorta di città sotto assedio. quasi tutti i belgradesi con cui ho parlato condannano questi gesti vandalici - in effetti opera di poche centinaia di persone, ma li comprendono. 
L'effetto finale, tuttavia, è stato quello di produrre altri segni di distruzione, in questa via in cui di segni di guerra ce n'è fin troppi. i segni delle devastazioni sono ancora lì, i muri anneriti dell'ambasciata americana, le finestre blindate di edifici che paiono sotto assedio, la presenza sempre massiccia di polizia (che, tra l'altro, ostacola le mie osservazioni, spero che non si stufino di vedermi sempre lì attorno e che non gli venga mai in mente di farmi passare qualche guaio): questa via, a volte, sembra di nuovo appartenere ad una città in guerra.
c'è un'altra cosa che non si può non registrare dopo un'osservazione attenta di questa parte della città: questa strada sembra possedere una speciale predisposizione a registrare alcuni tipi di segni prodotti dalla storia, come una pellicola troppo sensibile; al tempo stesso, questi segni sembrano, qui più che altrove, particolarmente resistenti alla cancellazione, alla rimozione. continuo a chiedermi perchè.
gli americani, col loro inguaribile pragmatismo, stanno in questi giorni reimbiancando la facciata dell'ambasciata, ma hanno militarizzato ancora di più gli accessi alla zona dell'edificio. ieri, davanti al loro consolato, campeggiava un cartello in cui c'era scritto che c'erano dei lavori in corso ma nonostante ciò, anche se gli uffici potrebbero sembrare chiusi, il personale è tutto operativo. Insomma: l'ambasciata sembra chiusa, ma non lo è. in realtà di personale, dicono, attualmente ce n'è ben poco, ma non si può dire, si fa finta che si sia tornati alla normalità.
difficile però che una mano di vernice bianca possa cancellare i tanti malumori.

martedì, marzo 25, 2008

_ Jugoslovensko dramsko pozorsite


ho fatto alcune foto al teatro restaurato da Radojicic; progetto interessante che conserva la vecchia facciata liberty e la ricopre con pannelli in vetro retti da un impalcatura in acciaio dipinta di bianco. Ricorda un po' lo stile di bernard khoury, l'architetto libanese che ha progettato tanti importanti edifici di beirut; in particolare c'è qualche assonanza con il suo hotel-restaurant Central. Entrambi sembrano voler conservare e integrare nel risultato finale quelle strutture che sono proprie della fase di realizzazione del progetto (come le impalcature) o che servivano a mantenere stabile l'edificio prima dell'intervento di ristrutturazione. Un tentativo di rendere permanenti dei segni pensati per essere transitori che può nascondere finalità diverse: nel caso di Khoury l'intenzione era quella di rendere organici alla struttura dell'edificio i segni del suo passaggio attraverso le guerre (l'impalcatura del central a Beirut era stata approntata per impedirne il crollo in caso di bombardamenti); il senso dell'operazione fatta con questo teatro di Belgrado è in qualche modo simile? Proverò a chiederlo personalmente a Radojicic.

Questa l'avevo scattata nel 2005.
N.B.: dato l'argomento del blog, sarà bene chiarire che l'edificio NON era stato danneggiato durante la guerra, ma era andato in fiamme per altre cause.

_primo post da belgrado

faccio finalmente ritorno al mio blog, dopo tutti questi giorni di latitanza, per scrivere il mio primo post da belgrado! sono arrivato venerdì e sto provando a organizzare il mio lavoro di ricerca, e solo ora mi rendo davvero conto di quanto sarà difficile. Sto provando a prendere i miei primi contatti, grazie anche all'ospitalità dell'Istituto italiano di cultura e a quella dei miei amici serbi ai quali provo da giorni a spiegare (non so con quanto successo) cosa sto facendo qui.
I miei programmi per i prossimi giorni sono, nell'ordine: visitare lo Human rights center, che dovrebbe essere il mio appoggio principale (anche se non ho ancora conosciuto personalmente il mio referente di lì, che in questi giorni non è in sede) e incontrare Zoran Radojicic, l'architetto che ha curato, tra  le altre cose, il rifacimento dello Yugoslav Drama Theater e il progetto della biblioteca nazionale. Sono due progetti eccezionali e appena possibile vi posterò alcune foto, perché purtroppo non sono molto famosi. 
Ho già visitato inoltre le facoltà di lettere e di filosofia e parlato con tante persone e posso provare a formulare una prima osservazione: non esiste un'opinione pubblica serba compatta, come la stampa occidentale prova a farci credere quando ci propina l'immagine di un nazionalismo serbo uniforme e becero; al tempo stesso, le diverse posizioni sono talmente diversificate che è a volte sembra davvero impossibile capirci qualcosa (per dirla come un siciliano, qui davvero ogni testa è tribunale). La strategia retorica, però, resta uguale in tutti: ognuno presenta la propria opinione come quella che, ovviamente, meglio risponde alle reali esigenze del paese, e, al tempo stesso, scredita le opinioni contrastanti presentandole come assolutamente irrazionali quando non criminali.
una cosa è certa, tutti riescono ad essere estremamente convincenti quando delegittimano le opinioni avversarie, e l'efficacia delle loro argomentazioni risiede nel fatto che tutti (sottolineo tutti) riescono sempre a raccontarti degli aneddoti a dir poco imbarazzanti (in realtà l'aggettivo giusto sarebbe un altro) che screditano fortemente il personaggio politico avverso. Circolano tante di queste storielle di segno opposto (anzi di una moltitudine di segni diversi), ed è naturale che sorga un sospetto, anzi due: o - come sempre nei periodi di intensa campagna elettorale, come ora qui, e comunque in periodi di forte travaglio politico - le bugie e le mezze verità riescono a diffondersi con una velocità e una capacità riproduttiva enorme o, e non scarterei subito questa ipotesi, tutti i politici qui hanno qualche scheletro nell'armadio.

lunedì, marzo 03, 2008

_il nuovo vecchio ponte di mostar

parlando di ricostruzioni postbelliche in ex-jugoslavia non si può non affrontare il caso di Mostar e del suo famoso ponte, demolito dall'artiglieria croata nel novembre del 1993, ricostruito (tra l'altro da uno studio di Firenze) e riconsegnato alla città e all'umanità nel 2004. Ecco come appariva il ponte in una cartolina del 1930

Queste sono le rovine del ponte dopo il crollo:
Ed ecco come appare oggi, dopo i lavori di ripristino diretti dall'architetto italiano Romeo Manfredo
La distruzione di questo ponte fu un gravissimo colpo per il morale non solo dei bosniaci ma di tutti quanti stavano vivendo l'esasperazione di una guerra che sarebbe riduttivo definire solo "civile", ma che delle guerre civili aveva acquistato i tratti più truci. Ci fu addirittura chi fece notare, forse un po' troppo causticamente, che, mentre negli stessi giorni venivano diffuse le atroci immagini del massacro di Stupni Dol, operato dai croati nei confronti degli abitanti del villaggio musulmano, pochi piansero per le tante vittime innocenti della strage ma tutti piansero per il ponte. 
Può sembrare insensato, fin crudele, piangere per delle pietre più che per delle vite umane, e senza dubbio, in fondo, lo è; nessuna cappella sistina al mondo vale una sola vita umana. Ma è anche vero che, se di fronte ai sentimenti di apatia, di fatalismo, quasi di indifferenza, che una guerra che pare interminabile può generare in quelli che vi si trovano loro malgrado in mezzo, può risultare quasi comprensibile la difficoltà di trovare altre lacrime per quegli altri morti, dopo che tante ne sono già state versate e per tanti altri morti, d'altra parte è fin troppo comprensibile la ragione di queste nuove lacrime per le pietre di questo ponte (e se ne parlava con elena in un post di qualche giorno fa): quei morti erano alcuni dei nostri, alcuni di noi; quel ponte era tutti noi.
Fortemente voluto da Solimano il Magnifico, venne realizzato nel 1556, in nove anni, dal geniale architetto Miram  Hajruddin, il quale, ben consapevole delle difficoltà tecniche di realizzare un ponte di quelle dimensioni con un'unica arcata, e temendo l'ira di Solimano, che gli aveva promesso la morte in caso di crollo, preparò il suo stesso funerale per il giorno in cui sarebbero state tolte le impalcature. Il ponte non crollò, e per secoli rappresento il simbolo della convivenza tra etnie diverse, cattoliche/croate, musulmane/bosniache, ortodosse/serbe. Quel ponte fu, per secoli, la vera e più autentica porta verso l'Oriente, come ci spiega Rumiz in un articolo che coglie la più profonda essenza di quello che non è solo un ponte, o che, meglio, del ponte, inteso come tecnologia di costruzione, riesce ad assumere tutte le più profonde valenze e implicazioni. 
Giustamente, di fronte al lutto per la perdita di un simbolo così importante, si pensa che la cosa più giusta da fare sia ricostruirlo com'era e dov'era, per restituirlo a tutti, musulmani, croati, serbi, all'umanità intera.
Ma quel ponte, che per secoli ha unito i quartieri croati a quelli musulmani della città, che per secoli è stato luogo di transito, di passaggio, di comunicazione (di traduzione, per riprendere quanto dicevamo prima a proposito dei confini), ora sembra aver incorporato un'invisivile barriera. Da soglia tra due anime della città, così dicono in tanti, esso sembra ora essere un limite invalicabile, e mentre prima si transitava senza nessun problema da un quartiere all'altro, negli anni successivi alla guerra sembrava che ognuno preferisse restarsene rintanato nel suo quartiere.
Rumiz, nel suo bellissimo racconto, ci dice del silenzio irreale che avvolse la città nei momenti immediatamente successivi al crollo: il ponte non c'era più, ma la sua anima sembrava essere ancora lì, e il silenzio era l'unico modo per salutarla; ciò che manca a questo nuovo ponte, continua Rumiz, è proprio quell'anima, perduta per sempre.
La poesia del racconto di Rumiz inevitabilmente mi porta a riflettere, da un ben più prosaico punto di vista semiotico, su quello che è il cuore stesso della mia ricerca: perché, anche di fronte ad un tentativo estremo di conservare quelli che vengono frettolosamente chiamati i segni della memoria, anche di fronte ad un ripristino integrale e filologicamente fedele (il progetto è stato in effetti realizzato a regola d'arte e si può parlare a tutti gli effetti di una ricostruzione à l'identique, con tutti i limiti connessi a questo tipo di interventi), la memoria condivisa, il "senso comune" di quel luogo è definitivamente mutato? Qualche idea ce l'ho, ma ora temo di essermi dilungato troppo, quindi ne parlerò in un altro post. Promesso.